ciclo di incontri - marzo 1997
Quaderno n. 68
La figura dell'altro nelle religioni non cristiane
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Islam

Giuseppe La Torre
 

1. Introduzione: le radici della multiculturalita' europea

Da 1200 anni, tra periodi di pace e stagioni di guerra, nell’alternarsi di presenze musulmane in Europa e di insediamenti cristiani sulle sponde dell’Africa e del Medio Oriente, il rapporto tra mondo arabo e musulmano da un lato ed europeo e cristiano dall’altro, ha segnato in modo decisivo il destino dei continenti che si affacciano sul Mediterraneo.

Nell’Europa di oggi dobbiamo porci con serietà la domanda su cosa sia veramente «estraneo» e rispetto a che cosa, a quale Europa, rispetto a quale Occidente, oggi si può parlare di estraneità.

Ma il tema della «estraneità» è anche molto sentito, e direi anzi centrale, nel dibattito religioso e culturale dell’islam e dei paesi dove esso è religione e cultura maggioritaria. Ma è poi vero l’assunto secondo il quale l’islam sarebbe qualcosa di totalmente estraneo alla fede ed alla cultura europea? E di contro: è vero l’assunto secondo il quale la fede e la cultura occidentale sono totalmente estranee all’islam?

1.1. la vicinanza culturale

La presenza dell’Europa nei paesi in cui l’islam è dominante non è una presenza di una religione e di una cultura ad essi estranei e con cui hanno dovuto confrontarsi solo nel periodo delle crociate o del colonialismo. Allo stesso tempo la presenza dell’islam in Europa non è quella di una religione e di una cultura ad essa estranee e in essa recentemente introdotte solo a seguito del processo immigratorio degli ultimi decenni. Da parte musulmana e da parte occidentale questo dato di fatto lo si deve accogliere con serenità.

Nel periodo dell’espansione islamica, per diversi secoli, mentre il livello degli studi declinava rapidamente in occidente, la filosofia e la scienza greche trovavano una nuova vita nel mondo musulmano. Fra l’VIII ed il X secolo furono tradotte in arabo, per lo più da traduttori cristiani, le opere della cultura greca, elaborando dei criteri filologici di notevole livello. Loro merito fu anche la creazione della lingua filosofica e scientifica araba, la cui precisa terminologia tecnica ha influenzato profondamente le lingue scientifiche moderne. In arabo furono tradotte anche tutte le principali opere della matematica greca, ed anzi alcune di esse ci sono conservate solo nella versione araba. Anche quando, alla diffusione delle dottrine aristoteliche nel pensiero teologico islamico, l’ortodossia reagì con al-Ghazali, la polemica è condotta sempre col metodo razionale acquisito dalla filosofia greca.

L’islam nel periodo della sua espansione storica e del suo confronto con popolazioni e culture diverse da quella araba, ha reagito con grande tolleranza e apertura: ha dato e ricevuto in un processo di espansione fino all’Europa (la Spagna e l’Italia Meridionale da un lato e i Balcani dall’altro) dalla quale, come un onda sul bagnasciuga, si è poi ritirato lasciando cultura e popolazioni rimaste nella fede musulmana.

Come sarebbe stato il rinascimento europeo senza i testi greci ricuperati in occidente attraverso le traduzioni dall’arabo in latino, in spagnolo e in ebraico? E' da poco il contributo dato dagli scienziati musulmani alle scienze matematiche? E che dire della tecnologia industriale e agricola introdotta dagli arabi in Europa attraverso la Penisola Iberica e la Sicilia? Per non parlare del gioco delle carte, degli scacchi, del liuto e dei caratteri della novellistica araba entrati in quella europea. I filosofi medievali usavano un gran numero di vocaboli prettamente latini per etimologia, ma arabi per il significato.

Luogo di grande mediazione erano le fiorenti comunità ebraiche della Francia, d'Italia e soprattutto della Spagna grazie alla buona preparazione culturale dei rabbini, conoscitori dell'arabo e del volgare, ma soprattutto avvezzi a tutte le complessità del pensiero filosofico e scientifico del tempo. Intorno all’anno mille nascono i primi dizionari dall’arabo al latino. Toledo in Spagna, la Lorena in Francia, alcuni centri in Inghilterra, Salerno in Italia operano nel XII secolo un lavoro gigantesco di traduzioni dall’arabo per mettere a disposizione del mondo occidentale opere di filosofia greca, di medicina, di matematica, di fisica, di astronomia, di farmacia.

Gli inizi della cultura scientifica, medica e matematica dell’Europa medioevale provengono dalla cultura islamica.

Dalla conquista di Granada nel 1492, per circa quattro secoli e mezzo, la presenza musulmana scompare dall’Europa come dato sociologicamente ed antropologicamente rilevante.

Per tutto questo periodo l'islam, la civiltà che ne derivò e i popoli musulmani furono ora demonizzati, ora indirettamente idealizzati in alcuni aspetti particolari, relegati nell'immaginario collettivo degli occidentali. Il contatto “fisico” tra Occidente e Oriente musulmano lo si riprende con le invasioni coloniali.

La cultura europea del XVIII e XIX secolo (dalla musica, al teatro, alla pittura, all’architettura ed alla letteratura) era pervasa dal gusto dell’esotico. Il simbolo di questa «moda» lo si può riscontrare nell’Esposizione Universale di Parigi del 1900. Ma l’Oriente della «moda» e dell’orientalismo occidentali, non è l’oriente reale, ma la sua rappresentazione ideale, da cui era diventato marginale (o comunque non emergente) l’aspetto religioso ritenuto elemento frenante nel processo politico di modernizzazione e di nazionalizzazione. Agli inizi del XX secolo, le popolazioni musulmane sono diffusamente considerate, in Occidente, all’interno di un mitico immaginario collettivo creato da un fenomeno cultuale e politico che era l’orientalismo.  L’impero ottomano con i suoi fasti, i suoi caffè, la sua musica e i suoi palazzi era lo stereotipo dell’oriente.

1.2. la sfida della monoculturalità

Nel corso di questo secolo si è visto lo sgretolamento del rapporto tra le tre grandi religioni e le loro rispettive culture: l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam. Le fiorenti e numerose comunità ebraiche sono quasi scomparse da molte regioni dell’Europa, dell’Africa Settentrionale e del Medio Oriente, vittime di persecuzioni e di emigrazioni forzate che le hanno concentrate in Israele. La violenza nazista che sta all’origine di questa dinamica e che ne ha accompagnato lo sviluppo con la spoliazione della terra e dei diritti dei Palestinesi ha creato un’inimicizia tra ebrei e cristiani, tra ebrei e musulmani.

Dopo la seconda guerra mondiale le comunità cristiane del Medio Oriente hanno cominciato a subire un declino numerico che minaccia di provocarne l’estinzione nel giro di qualche decennio.

L’antica presenza musulmana in Europa aveva perduto ogni funzione attiva di dialogo e di scambio culturale. Emarginate nei Balcani, escluse da ogni significativo circuito economico, letterario o scientifico, le comunità musulmane residenti nell’Europa Meridionale erano praticamente cadute nell’oblio finché non ne sono state tratte dalle tragiche vicende della guerra nella ex-Jugoslavia.

Ma già agli inizi del XIX secolo molti italiani si trovavano disseminati in piccole o consistenti colonie di immigrati in tutta la fascia costiera mediterranea. Particolarmente consistente è il numero di Italiani in Egitto e in Turchia, costretti all’emigrazione soprattutto per motivi politici. Nella seconda metà del XVIII secolo diversi italiani diventano figure di spicco nella vita pubblica e culturale egiziana e fino al 1861 l’italiano era una delle lingue ufficialmente in uso nelle poste egiziane. Nel 1822 andava alle stampe il primo dizionario italo-arabo e nel 1845 il primo giornale in lingua italiana in Egitto, Lo Spettatore Egiziano, seguito nel 1876 da Il Messaggero Egiziano e nel 1892 da L’Imparziale. Nel 1930 questi ultimi due giornali si fonderanno ne Il Giornale d’Oriente. Se c’era più di un giornale era segno che c’erano lettori. Dai 6.000 del 1820 gli emigrati italiani passarono ai 40.000 del censimento egiziano del 1917.

Diversa, anche se numericamente rilevante, era l’emigrazione italiana in Tunisia dove non spiccavano, come in Egitto o in Turchia, figure di italiani di primo piano nella cultura o nella vita ufficiale di quella nazione. Nel censimento del 1907 gli italiani erano 81.156 (più del doppio dei francesi), ma già nel 1919, secondo i registri della direzione della sicurezza di Tunisi, saranno ben 143.000 (di cui più del 60% siciliani!). Essi avevano diversi giornali in lingua italiana. Tale emigrazione (con tutti i legami e gli interessi commerciali, politici e culturali ad essa connessi) crea un tessuto di rapporti e d’interessi e fa da veicolo e da contatto tra l’Italia e le “sponde musulmane del Mediterraneo”. Se in diverse nazioni delle sponde mediterranee dell’Africa e del Medio Oriente vi erano scuole italiane, ciò testimonia un numero a lunga residenza in quelle regioni.

Non bisogna dimenticare neppure che nel 1938 le quatto province costiere libiche vennero incorporate nel territorio dello stato italiano o che nel 1946 i dipartimenti algerini erano in tutto assimilati a quelli metropolitani francesi.

Ciò ha prodotto flussi di gente, di idee, di “immagini dell’altra sponda” e di reti commerciali; ha instaurato rapporti di convivenza che hanno avviato il processo immigratorio dagli anni cinquanta.

1.3. la  sfida alla multiculturalità

Le generazioni vissute in questo secolo, però, sono anche eredi di una conquista culturale: che la criticità, il dissenso e la diversità non sono tendenze alla dissoluzione, ma alla costruzione, non sono fattori negativi di una società, ma altamente positivi.

La sfida della società odierna è la «multiculturalità», già realtà e che le società europee non possono disconoscere.

L’islam fa parte di questa sfida. Sfida intesa nell’accezione di opportunità. Il passato ci ha lasciato in eredità un confronto tra le due religione il cui obiettivo è l’esclusione dell’altro, la dimostrazione e la convinzione che l’altro è «altro» da noi! Più da buoni discepoli di Aristotele che da credenti nell’unico Dio misericordioso, abbiamo appreso che un’affermazione vera implica inequivocabilmente che il suo contrario sia falso, senza approfondire che due affermazioni diverse possono essere parti complementari della stessa verità. Il passato ci ha lasciato in eredità due blocchi: il blocco di coloro che considerano i non musulmani «infedeli» ed il blocco dei cristiani che, in forme diverse, affermano che «al di fuori della Chiesa non c’è salvezza». Quello che oggi possiamo costatare è che l’elaborazione teologica degli uni e degli altri, nell’ambito del rispettivo sistema dottrinale, ha prodotto un sistema di mutua esclusione e l’apologia e la polemica hanno determinato fino ai nostri giorni i rapporti tra cristianesimo e islam.

Proiettata nel lungo periodo, la nuova presenza musulmana in Europa costituisce l’opportunità più rilevante e concreta per riaprire il discorso di connivenza interreligiosa ed interculturale che minacciava di chiudersi.

2. L’alterità confessionale: l’infedele

L’islam non si considera, nei confronti delle religioni monoteiste precedenti, come una religione nuova di cui Muhammad, in un particolare contesto sociale ed in un determinato periodo storico è il fondatore; ma si considera  come  quella religione unica, vera, eterna ed universale nata come rapporto tra Dio ed ogni cosa creata fin dal momento stesso della creazione e di cui il Corano è la rivelazione ultima e perfetta. Questo implica il riconoscimento delle rivelazioni che hanno preceduto il Corano attestate nei libri  sacri  degli ebrei e dei cristiani, snodatesi come la catena di una comune tradizione. Muhammad stesso, nei suoi rapporti con ebrei e cristiani, ha compreso le tre confessioni sotto questa dimensione unica e unificante. Ebrei  e  cristiani,  tuttavia,  sarebbero stati incapaci di salvaguardare fedelmente la rivelazione divina che avevano ricevuto (e per cui si era resa necessaria un’ultima e definitiva rivelazione: il Corano).

Il Corano cita 18 volte la Torah e 12 volte il Vangelo[1]. Di tutte queste citazioni (tra cui sono famose 3,84; 6,154-157) presentiamo un brano dalla sura della mensa:

«In Verità noi abbiamo rivelato la Torah,  che contiene retta vita e luce, con la quale giudicavano i profeti tutti dati da Dio fra i giudei, con i maestri e i dottori con il libro di Dio, di cui era stata loro affidata la custodia e di cui erano testimoni.  Non temete dunque questa gente, ma temete Me e non vendete i miei Segni [= versetti del Corano] a vil prezzo! Coloro che non giudicano con la Rivelazione di Dio, son quelli i Negatori. [...] E coloro che non giudicano con la Rivelazione di Dio sono gli iniqui. E facemmo seguire loro Gesù, figlio di Maria, a conferma della Torah rivelata prima di esso, retta guida e ammonimento ai timorati di Dio. Giudichi dunque la gente del Vangelo [= i cristiani] secondo quel che Dio ha rivelato che coloro che non giudicano secondo la Rivelazione di Dio sono perversi. E a te abbiamo rivelato il libro secondo verità a conferma delle scritture rivelate prima e a loro protezione» (5, 44-48).

L'islam, accordando ad ebrei e cristiani una certa partecipazione alla verità, mantiene una tolleranza di principio nei loro confronti, finché essi non impediscono ai musulmani di mettere in pratica i precetti dell'islam e di vivere la propria  fede. Il riconoscimento dei diritti degli ebrei e dei cristiani è  fondato sulla comune fede in un Dio unico come lo stesso Corano afferma: «Noi crediamo in quello che è  stato rivelato a noi e in quello che è  stato rivelato a voi, e il nostro e il vostro dio non sono che un Dio solo e a Lui noi tutti ci diamo (=siamo muslim)» (XXIX,46). Nel corso della storia questo riconoscimento ha permesso in certi periodi dei rapporti culturali molto fecondi. Ma nel Corano sussiste anche un’altra tendenza secondo la quale ebrei e cristiani sono in mala fede in molte cose; per questo sono chiamati anche «gente maledetta» e contro di essi si deve dichiarare guerra (IX,20-30). Così come nel Corano questo doppio atteggiamento lo si riscontra anche nel rapporto dei musulmani con ebrei e cristiani e con le loro Sacre Scritture, nella ferma sincera convinzione di essere i soli veri fedeli.

L’islam è una religione in cui la fede si manifesta con la sottomissione attiva e volontaria della creatura al Dio misericordioso che l’ha creata. Tale sottomissione si esprime nell’obbedienza alla sua parola rivelata: il Corano, l’unica mediazione possibile tra la creatura ed il suo creatore. L’islam pertanto non può mai essere una pratica privata dell’individuo di fronte a Dio, ma sempre anche un fatto della vita pubblica, della società e dello stato. La parola rivelata è pertanto legge eterna, santa e divina che deve trovare applicazione nel mondo attraverso una comunità di credenti: solo così l’islam può essere religione: religione basata sulla legge divina[2].

Il musulmano è profondamente convinto di conoscere la verità di Dio, cosa che gli dà una grande certezza nelle sue affermazioni e, nella sua estrema ed assoluta fiducia nel Corano, non si pone domande su ciò che crede.

Sicura della verità, la comunità musulmana si sente investita del mandato di diffondere la rivelazione di Dio e di far prendere coscienza ad ogni donna e ad ogni uomo della propria «sottomissione» a Dio. L’islam delle origini non conosceva l’idea, già antica presso i cristiani, di una missione organizzata per convertire alla “vera fede”. Questo non impedisce però che islam sia, come il cristianesimo,  una religione missionaria, perché ogni musulmano è  tenuto a rendere testimonianza a Dio ed alla sua rivelazione. In passato ciò è  avvenuto spesso in forma violenta. Alcuni piccoli centri musulmani cominciarono tempo fa a formare dei «missionari» col preciso scopo di guadagnare nuovi membri alla umma musulmana. A questo oggi sono interessati anche organizzazioni musulmane internazionali sostenute da varie organizzazioni religiose, politiche o statali di paesi musulmani. Non bisogna nascondere il fatto che dietro una moschea potrebbe esserci, come sponsor politico, il governo di una data nazione musulmana. Capita infatti che nelle grandi città europee sorgano diverse moschee (talvolta in aperto conflitto tra loro) anche a seconda delle tendenze politico-religiose.

Riguardo al dialogo teologico sulle Scritture, bisogna partire dalla constatazione di alcune differenze che vi sono tra il posto che occupa la Bibbia in seno al cristianesimo e quello che occupa il Corano in seno all’islam. A questo però bisogna aggiungere che, quando in ambito musulmano si parla delle Sacre Scritture rivelate agli ebrei e ai cristiani, non s’intende la Bibbia nella sua stesura attuale, ma i testi biblici originali, ormai perduti per sempre!

Ebrei e cristiani sarebbero stati incapaci di salvaguardare fedelmente ed integralmente la rivelazione di Dio loro affidata. Prova di ciò è  per i musulmani, ad esempio, che anziché un Vangelo  i cristiani ne hanno addirittura quattro e che oltre l’Evangelo (annunziato a Gesù Cristo) i cristiani riconoscono altri libri, tra cui le lettere di un uomo (Paolo di Tarso) che, a loro avviso, ha manipolato la rivelazione di Dio con l’aggiunta di dottrine e di dogmi quali l’incarnazione, la redenzione per mezzo della morte e della resurrezione di Cristo, la trinità ecc.. La Bibbia pertanto non avrebbe alcun carattere originario della rivelazione divina, ridotta a semplice opera umana. Il Corano chiama da un lato ebrei e cristiani a vivere secondo le scritture loro affidate e, a motivo dell’unità delle Scritture, li chiama d’altro lato  a sottomettersi al Corano.

Nel dialogo islamo-cristiano il punto da chiarire è la diversità  della comprensione biblica e della comprensione coranica riguardo alla rivelazione. Il punto centrale è  che  Bibbia e Corano non sono sullo stesso piano teologico, perché la parola di Dio non è la Bibbia, ma Gesù Cristo (Giovanni 1,1.14). La Bibbia raccoglie la testimonianza della rivelazione e dell’opera di Dio nella storia (Luca 1,1-4; 1Giovanni 1,1-4; Atti 8,25; ecc.). Mentre il Corano è  la parola di Dio, libro divino in ogni pagina, in ogni parola, in ogni lettera. Le rivelazioni coraniche quindi che hanno un riscontro nella Bibbia (quando si parla dei patriarchi, dei profeti o di Gesù), non sarebbero conoscenze che aveva Muhammad attraverso i contatti con ebrei e cristiani, ma parole procedute direttamente da Dio secondo un archetipo celeste chiamato «la Madre del Libro» (XLIII,1-4).

Ciò mette in difficoltà i cristiani quando questi trovano una conoscenza biblica approssimata, nel Corano, con aggiunte di tradizioni rabbiniche e di tradizioni evangeliche apocrife, ma soprattutto l'attestazione coranica del rifiuto della morte di Cristo e della sua sostituzione con un sosia (IV,156ss); affermazione che tocca il cuore della fede cristiana. A questo punto il problema del dialogo è  che i musulmani, nei confronti della fede cristiana, credono solo ciò che il Corano, norma decisiva della fede, afferma di essa.

Il nodo è proprio questa «norma decisiva della fede» che è  comune a cristiani e musulmani. Questi infatti non possono accettare che la norma della fede si trovi nella rivelazione coranica, e gli altri non possono accettare che tale norma si trovi in Gesù Cristo. Bisogna dunque avere coscienza che la questione della verità e della fedeltà sia il nodo essenziale della tensione tra le comunità musulmane e quelle cristiane: questa tensione e non altre legate a contingenti situazioni politiche che oggi riproiettano l'islam dei nostri pregiudizi e delle nostre paure. Questa stessa tensione non può avere, a mio avviso, un carattere assoluto, ma deve essere anch’essa inquadrata nel carattere provvisorio della storia e dell'esperienza umana. Senza imboccare la strada dei cedimenti o dei sincretismi, questa tensione deve essere vissuta come una esortazione permanente all'umiltà ed al pentimento, «perché ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia» (1Corinti 13,12) afferma Paolo parlando della conoscenza umana di Dio e della verità.

Oggi la maggior parte dei cristiani si sente lontana dai lunghi dibattiti che travagliarono la chiesa antica per la formulazione dei più importanti dogmi cristologici; eppure oggi la cristianità si rivolge a Dio con parole e con formule teologiche che risalgono a quell’epoca e in quell’area del mondo di allora, la regione del bacino orientale del mediterraneo, dove la chiesa cristiana era caratterizzata da conflitti teologici e dagli scismi delle chiese orientali; area dove l'islam fece i suoi primi passi. Se Muhammad prese conoscenza della fede cristiana, questa gli fu testimoniata da una cristianità divisa sulla formulazione teologica della divinità di Cristo.

La chiesa siro-persiana (oggi nota come Chiesa Assira d’Oriente), separata dalla Chiesa Ortodossa del patriarcato di Costantinopoli, fu quella che forse più di tutte le altre chiese cristiane ebbe maggiori contatti con l'islam delle origini e nella sua prima fase di sviluppo. Riguardo alla natura di Cristo, questa chiesa nestoriana, distingueva nettamente tra la natura divina e quella umana. Quanto alla natura umana di Gesù c’è  da dire che la sua concezione si avvicinava molto alla concezione cristologica del Corano. Alcuni studiosi avanzano l'ipotesi che la cristologia dell’antica chiesa giudeo-cristiana, la comunità cristiana di origine ebraica quasi scomparsa dopo la caduta di Gerusalemme nel 70 d.C., riapparirebbe con Muhammad nell’islam.

Partendo da un monoteismo radicale, la concezione coranica su Gesù è quella di un semplice profeta e inviato: «Il Cristo Gesù, figlio di Maria, non è  che un Messaggero di Dio, il Suo Verbo che egli depose in Maria, uno Spirito da Lui esalato» (IV, 171b). Dono particolare concesso a Gesù è  quello di fare dei miracoli; in qualche testo sembra che Gli si riconosca una certa partecipazione alla potenza creatrice di Dio (III, 43-49). Egli però rimane sempre un semplice strumento umano nelle mani di Dio che agisce secondo il Suo beneplacito. Lo stesso versetto che chiamava Gesù «Verbo» e «Spirito», prosegue infatti negando la trinità: «rendete dunque in Dio e nei suoi Messaggeri e non dite: “Tre!” Basta! E sarà meglio per voi! Perché Dio è  un Dio solo, troppo glorioso e altro per avere un figlio! A Lui appartiene tutto ciò ch'è  nei cieli e quel ch'è sulla terra, Lui solo basta a proteggerci!» (4,171c). Questa posizione intransigente dell'islam non permette di convincere i musulmani che la fede in Gesù Cristo come figlio di Dio non mette in pericolo la fede in un solo ed unico Dio.

3. L’alterità intrareligiosa: l’eretico

Superata la questione sui termini di «ortodossia» ed «eterodossia», in quanto ritengo siano relativi e di parte i criteri che stabiliscono dove sia l'ortodossia e dove l'eterodossia, chiameremo «ortodossa» quella parte della umma musulmana largamente maggioritaria (90%) e che si autodenomina ortodossa. Premetto subito però che quando nell'islam si parla di «sette», s’intende parlare solo di quei gruppi che non solo hanno delle peculiarità dottrinali, ma che soprattutto si sono autoesclusi dalla comunione spirituale e religiosa degli altri musulmani ritenendosi «il vero islam». In quanto alla dottrina, invece, il primo fondamento su cui poggia l'islam è la confessione di fede che recita: «Non c'è dio se non Iddio e Muhammad è il suo inviato»; non è musulmano o è eretico, nell'islam, solo chi non accetta una delle due parti di questa confessione di fede (o quella sull'unicità di Dio o quella sul riconoscimento di Muhammad come inviato divino).

3.1. l’islam kharigita

La prima divisione consistente all’interno della comunità musulmana avvenne quando nel 656 d.C. ‘Ali fu eletto califfo dell’islam. Ritenendo di essere il più qualificato, in quanto membro della famiglia del profeta, per succedergli alla guida , ‘Ali aveva assistito frustrato all’elezione di ben tre califfi prima che la scelta cadesse su di lui. La sua elezione però avviene in un clima estremamente sfavorevole. Mu’âwiya, governatore della Siria, e capo del potente clan omayyade, rifiuta di riconoscere ‘Ali come califfo. La legittimità califfale di ‘Ali fu affidata ad un arbitrato. Una parte dei partigiani di ‘Ali, non accettando questa soluzione, abbandonò l’accampamento uscendo dal patto di sudditanza al califfo e dalla comunione con la umma; vennero chiamati kharigiti (dal verbo arabo che significa «uscire fuori»): fu il primo scisma dell’islam. L’esito dell’arbitrato si risolse a sfavore di ‘Ali che non accettò il responso e prese le armi contro il partito avverso. La morte del quarto califfo nel 661 non risolve comunque la questione della legittimità del califfato, la umma infatti si suddivide ulteriormente. La maggior parte di essa si riconcilia con Mu’âwiya dichiarandosi fedele alla tradizione del profeta, la Sunna, e alla  comunità: i sunniti. Una minoranza invece rimane fedele alla memoria ed alla legittimità califfale di ‘Ali e della dinastia alide: costoro sono i «partigiani» (sciiti) di ‘Ali.

Il kharigismo ebbe vita soprattutto nei primi secoli dell’islam come movimento in continua rivolta contro il califfo sunnita. Il gruppo kharigita sopravvissuto fino ai nostri giorni è quello ibadita, dal nome del loro presunto fondatore, ‘Abdullâh ibn Ibad, che si sarebbe staccato dai gruppi più estremisti già nel primo secolo dell’egira. Sono circa un milione e sono sparsi in vari gruppi in Algeria, Tunisia, Libia, nello Oman e nello Zanzibar, mantengono ancora un certo rigorismo morale e, per il culto, esigono una stretta osservanza della purità rituale.

3.2. l’islam sciita

Di dimensione molto più vasta, sia dal punto di vista numerico che teologico, è il secondo scisma dell'islam: la sci’a, «il partito» (di ‘Ali), oggi il 9% dei musulmani. Attualmente la teologia sciita si differenzia da quella sunnita in tre punti: la dottrina dell’imamato, il valore redentivo dato alla sofferenza ed al martirio, l'adozione della teologia mutazilita nell'interpretazione del Corano.

La fondamentale diversità tra sunnismo e sciismo è il contrasto sulla direzione spirituale (imâma) o la direzione politica (hilâfa) della comunità musulmana; se cioè debba esserci un imâm o un califfo a capo della umma; se debba esserci un’autorità riconosciuta dalla comunità democraticamente per elezione, oppure se debba esserci un’autorità conferita direttamente da Dio e trasmessa ad personam in una successione ininterrotta a partire da Muhammad. Questa differenza fondamentale parte dall’accettazione o dal rifiuto della mediazione tra gli uomini e Dio, accolta dagli sciiti, rifiutata dai sunniti. E’ questa una differenza molto simile a quella tra cattolicesimo (che accoglie tale mediazione) ed il protestantesimo (che la rifiuta). Non a caso nella sci'a, a differenza del sunnismo, c’è un clero docente, è molto sviluppato il culto della persona, una sorta di culto dei santi e la riproduzione delle immagini di questi. Tuttavia non è possibile comprendere fino in fondo questa differenza se non si tiene conto dell’elemento esoterico portato avanti dall’elaborazione teologica sciita con la dottrina dell’imamato.

Come per l’islam sunnita, anche lo sciismo ritiene chiuso il ciclo del profetismo con Muhammad «Sigillo dei Profeti» (Khâtim al-nabiyâ’), dopo Adamo, Noè, Abramo, Mosè e Gesù, la missione dei quali era quella di portare una nuova legge (sciâri’at) all'umanità. Diversamente dal sunnismo, però, per lo sciismo la fine del ciclo della profezia (nubuww’at) ne apre uno nuovo: il ciclo della guida iniziatica (walâyat). Come il profeta è il fulcro del primo ciclo, così l’imâm lo è per il secondo; e così alla ricerca dottrinale della verità (sciâri’at) del primo ciclo succede la ricerca spirituale della verità (haqîqat), all'essoterismo (zâhir) succede l'esoterismo (bâtin), all'esegesi letterale (tafsîr) succede l'esegesi spirituale (ta’wîl). Il primo ed il secondo ciclo non si completano l’un l’altro né si escludono: essi sono, per lo sciismo, quasi come due periodi speculari che si riflettono l'uno nell'altro. In questa concezione non trova posto il califfato (né quello elettivo né quello dinastico) così come è inteso nel sunnismo: i primi tre califfi hanno usurpato il posto ad 'Ali, col quale inizia il ciclo della guida iniziatica, ed al quale succedono gli imâm.

Verso la fine del X  sec. dell'era cristiana la gnosi, la filosofia greca, soprattutto il neoplatonismo, cominciano ad influenzare il pensiero musulmano; la figura dell'imâm acquista a poco a poco un carattere sovrumano in virtù di qualità divine di cui era dotato, secondo l’antica filosofia gnostica della Luce, per cui nell'imâm s’incarna la luce divina discesa dai tempi di Adamo attraverso successive generazioni di profeti.  Per lo sciismo ogni imâm, a turno, è stato «Custode del Libro» (Qayyim al-Qur’ân), colui che esplicita e trasmette ai suoi discepoli il senso nascosto delle rivelazioni: questo insegnamento, oltre ad essere il patrimonio teologico dello sciismo è anche la fonte del suo esoterismo.

Gradatamente la dottrina dell’imamato andò cristallizzandosi in tre posizioni principali, e quindi in tre principali correnti sciite, che si differenziano in base al diverso valore sacrale che ognuna dà alla figura dell’imâm e alla successione del numero di imâm prima dell'inizio del ciclo di occultazione. Gli studiosi distinguono - in riferimento alle differenze teologiche col sunnismo - tre categorie di sci'a: una moderata (che considera l'imâm come un uomo «rettamente guidato»), una estrema (che attribuisce un carattere divino all'imâm) e una media (che lo considera «intriso di luce»). La divisione tra queste tre principali frange dello sciismo si compie per la prima volta al momento della morte del quarto imâm quando la frangia che sarà detta zaydita riconoscerà Zayd ibn 'Ali come imâm legittimo, mentre il resto della sci’a riconosce Muhammad al-Baqir; la seconda volta la separazione avviene tra la frangia imamita duodecimana e quella ismailita settimana quando, alla morte del sesto imâm la prima riconosce come legittimo imâm Musa al-Kazim, il primogenito dell’imâm precedente, mentre la seconda riconosce tale legittimità in Ismail, un altro dei suoi figli.

3.3. la sci’a zaydita

Il gruppo più consistente di quella che è definita la sci’a moderata è quello degli zayditi, dal nome di Zayd ibn ‘Ali, un discendente di ‘Ali che tentò di togliere il califfato agli omayyadi. Egli fu proclamato di suoi seguaci 5° imâm successore legittimo di ‘Ali invece di Muhammad al-Baqir, che fu riconosciuto imâm dagli altri sciiti. Con Zayd l’alidismo diventa fatimide: la legittimità della successione califfale spetta solo, cioè, alla discendenza dei figli di ‘Ali e della moglie Fatima (figlia del Profeta). Gli zayditi si distinguono dall'islam sunnita, col quale condividono la scelta per elezione del califfo (che loro chiamano comunque imâm),  solo per la questione della legittimità califfale della discendenza fatimide. Pur mantenendo la dot­trina dell’imamato essi, però, non accettano la dottrina dell’occultazione e del ritorno dell'imâm. Per gli zayditi l’imâm, a cui non  riconoscono alcuna qualità soprannaturale, altro non è se non la guida spirituale e quindi per questo anche tempo­rale della umma.

3.4. La sci’a imamita duodecimana

La sci’a media è di gran lunga quella che ha un maggior numero di membri; 50 milioni (il 9% della umma islamica), per lo più in Iran (dove è la religione ufficiale), in Libano, in alcune zone meridionali dell’Asia Centrale, in Iraq, in India e in Pakistan. La sci’a media si identifica con l’imamismo duodecimano, secondo cui l’imâm non è un semplice «erede Spirituale» del Profeta, ma è investito di una funzione che potremmo definire «sacerdotale», medianica tra la divinità ed il popolo dei fedeli. Lo sciismo duodecimano accetta la succes­sione di dodici imâm, l'ultimo dei quali si è occultato nel 874 ed è chiamato il Mahadi, l’atteso, in quanto si aspetta il suo ritor­no. Questi dà inizio alla storia segreta del dodicesimo imâm ed è l’anima, la coscienza sciita da dieci secoli e la chiave interpretativa della sua storia. Comunemente chiamato «Sâhib al-zamân» (= il signore di questo tempo), invisibile ai sensi ma presente nel cuore dei fedeli, Muhammad al-Mahadi, il dodicesimo imâm, chiude il ciclo della guida iniziatica, come il profeta Muhammad aveva chiuso il ciclo profetico. Dall’occultazione del dodicesimo imâm un vicario (wakil) regge la comunità in sua vece, ma anche il periodo dei wukala (quattro in tutto) finisce lasciando il posto ad una oligarchia di teologi e di autorità politiche attraverso i quali l'imâm nascosto fa conosce­re la sua volontà. L'imâm occultato, infatti, non è morto, perché altrimenti né la comunità musulmana né il mondo stesso (secondo la teologia imamita) potrebbero sussistere, ma vive nascosto da qualche parte fino al giorno in cui si farà riconoscere.

La  dottrina dell’imamismo presenta i suoi caratteri più estremi con l’affermazione che sulla terra non può mai mancare una persona sacra, vicaria del Profeta, per spiegare in ogni tempo la Verità di Dio. Otto secoli dopo la grande occultazione, Akhmad al-Akhsari attribuì ai quattro wukala il nome di Bâb (= porta) e, ritenendosi investito di una missione particolare per la guida spirituale conferitagli dall’imâm, elaborò una dottrina neo-settimana (ritenuta eretica dall’imamismo ufficiale) e riunì dei seguaci attorno a sé dando vita (intorno al 1826) al movimento degli sciaykhî.

Lo sciaykhismo si suddivide con il secondo successore di Akhmad al-Akhsari, quando parte del movimento riconosce Mirsâ ‘Ali Muhammad come capo nel 1844, che si proclama «la porta» (Bâb) tra il dodicesimo imâm nascosto ed i suoi fedeli. Con questo ramo nasce il Babismo. Le feroci repressioni che subì questo movimento costrinsero gli aderenti ad emigrare. Il centro spirituale del babismo si spostò così a Baghdad, Istanbul, Edirne e, infine, ad Haifa. Dal babismo in esilio si formò il movimento universalista del Bahâ’i.

3.5. la sci’a Ismailita

Col  nome di isma’iliyya (= ismailiti: dal nome dell’imâm eponimo ritenuto successore legittimo di Giafar as-Sadiq) è conosciuta una delle frange più estreme della sci’a (nel senso di “più lontana” dal sunnismo),  nata da un gruppo che, alla morte dell'imâm Giafar as-Sadiq, riconobbe come legittimo settimo imâm Muhammad ibn Isma’il, suo nipote e figlio del suo defunto primogenito Isma’il ibn Giafar. Musa al-Kazim (secondogenito di as-Sadiq) fu invece riconoscono legittimo settimo imâm dai duodecimani.

L’ismailismo si ramifica in settimani (sab’iyya) e fatimidi con la morte di Muhammad ibn Isma’il. I settimani sostenevano che il settimo imâm (da cui il nome di settimani) fosse entrato in «nascondimento» (mastûr) e che sarebbe tornato come mahadi alla fine del mondo. Per i Fatimidi, invece, il periodo del mastûr degli imâm continua  in una sorta di dinastia imamica fino a Ubaidallâh al-Mahadi (874-933) riconosciuto come mahadi e che fonda la dinastia Fatimide nel 909 che regnerà nel Maghreb, risiedendo in Egitto, dal X al XII secolo.

Nel 1094, alla  morte dell’ottavo califfo fatimida al-Mustansir bi-llâh, il figlio Nazyr, primogenito di questi, fu soppiantato nella successione dal fratello Musta’li. Coloro che accettarono Musta’li furono chiama­ti ismailiti musta’li, mentre coloro che riconoscevano in Nazir il legitti­mo successore al califfato fatimida furono chiamati ismailiti nizari. Essi portarono in salvo il nipote di Nazir nella fortezza di Alamût, in Iran, dove il nizarismo dà vita ad un ismai­lismo esoterico, da cui nasce il gruppo dei cosiddetti assassini: l’ismailismo riformato di Alamût. Nel 1256 la fortezza è rasa al suolo dai mongoli e l’ultimo imâm, Ruknoddin Scià, viene assassinato. Si salva il figlio che con i seguaci rimasti, facendosi credere una confraternita sufi, sono sopravvissuti fino ai nostri giorni. Nel  1834 lo scià di Persia insignì del titolo di «Agha Khan» (=principe maestro) l’imâm capo dei nizari; emigrato in India stabilì in quella nazione la sede centrale. Attualmen­te Karîm Aga Kan IV è il capo spirituale di qualche centinaio di migliaia di seguaci, la maggior parte dei quali risiede ancora oggi nei centri iraniani e nella zona che comprende gli altipiani dell’Asia Centrale, del Pakistan e l’India. Il nome con cui oggi sono comunemente chiamati è khoja.

A partire dall’assassinio del califfo al-Amir nel 1130, i musta’li ritengono in «mastûr» il loro ultimo imâm ‘Abu-l-Qâsim at-Tayyb. Da allora essi hanno, come guida spirituale, un dâ’j (o gran sacerdote), il rappresentante dell’imâm invisibile. Trasferitisi prima nello Yemen, dal XVI secolo anche  i musta’li  hanno portato in India la loro sede religiosa, dove contano circa  600.000 membri, comunemente noti col nome di bohora.  In questo secolo i bohra si sono suddivisi in due gruppi: i dawudi e i suleymani.

3.6. le sette ismailite

L’origine di quella che, al pari dei drusi, è considerata da sunniti e sciiti una «setta» al di fuori dell’islam, è tuttora oggetto di discussione. Prendono il nome da uno dei loro capi, Muhammad ibn Nusayr (m.880) e probabilmente affondano le loro origini nei movimenti gnostici cristiani preislamici, ma confluirono nell’imamismo duodecimano prima e spostandosi successivamente nel movimento ismailita. Erano comunque legati alla frangia siriana dei carmati, coi quali venivano spesso associati. La loro dottrina non è per nulla accostabile o paragonabile allo sciismo, ma si evolve in modo autonomo al suo interno sviluppando dall’ismailismo, dallo gnosticismo e dal manicheismo i punti originali della sua teologia, in cui gli imâm sono fortemente intrisi della presenza divina. Preesistenti come idee - secondo la teologia ismailita - nella dottrina alawita, essi però s’incarnano nel mondo reale in una serie di cicli e periodi per compierne il riscatto finale.

Il sesto califfo fatimida al-Hakim, proclamatosi Dio, fu appoggiato da alcuni seguaci, capeg­giati da un certo Hamza e un certo Darazi. Da quest’ultimo costo­ro furono chiamati drusi, che attualmente sono circa 200.000 e vivono in quasi tutte le nazioni del Medio Oriente. Caratteristi­ca di questo gruppo è l'esoterismo delle dottrine, note solo agli alti iniziati. Sia i drusi che altri gruppi, definiti collettivamente ‘Ali-hilahi, come gli alawiti, gli Ahl-i Haqq e gli Yazîdi, benché abbiano una matrice ismailita, sia dal punto di vista dottrinale che storico, difficilmente possono essere considerati musulmani, anche se i loro aderenti si professano tali. Le loro dottrine sono troppo particolari per far parte della umma musulmana. Essi sono fortemente intrisi di elementi gnostici. Non a caso infatti molti preferiscono definirli «sette».

Ahl-i Haqq (letteralmente = gente della verità) è uno degli appellativi per definire una setta ismailita esoterica che non possiede un suo testo sacro e con dottrine gnostico-manichee. Essi contano sette manifestazioni divine consecutive nonché, di seguito a ciascuna di queste, cinque epifanie di ipostasi divine (chiamati angeli o ministri) emanate dal divino e che formano, di volta in volta un’unica entità. Queste sono dei cicli verso la maturità estrema. Nel secondo ciclo prevalgono i rappresentanti islamici, ma il centro della loro dottrina prende vita dal quarto ciclo, quello del sultano Sukhaq, presumibilmente il fondatore della setta. Essi credono alla trasmigrazione delle anime e sono vegetariani.

Yazîdi sono i membri di una etno-setta esoterica che vive tra i kurdi dell’Iraq del Nord, soprattutto nella regione a Nord di Mossul, a Shaykhan, dove si trova il loro centro di culto con la tomba del loro santo nazionale, lo sceikh ‘Adî. Suddivisi rigidamente in tribù e famiglie, sono organizzati in cinque circoscrizioni. A causa del loro esoterismo, basato su un mito di discendenza, è proibita qualsiasi mescolanza al di fuori della loro comunità, pena la scomunica. A questa esclusività esterna ne segue un’altra interna tra laici e religiosi a loro volta suddivisi in caste rigorosamente endogamiche. I sunniti non li riconoscono come musulmani soprattutto a causa della venerazione per Yazîd ibn Mu'awiya, probabilmente il loro eponimo, reo di aver causato la morte dei figli i ‘Ali, Hassan e Hussyn, ma forse perché stereotipo del malvagio, dell’essere satanico, è simboleggiato dal malak tâ’ûs, l’angelo-pavone. Dietro l’immagine del pavone si nasconde l’angelo decaduto (il diavolo), ma il suo pentimento e la grazia di Dio spezzano la sovranità del male, da cui la via della rinascita, interpretata come via di purificazione che conduce alla nobiltà dell’anima e al paradiso. Il malak tâ’ûs diventa così il vero esecutore della volontà divina della salvezza, il creatore ed il sostenitore dell’universo. Tutto questo è narrato dai miti yazidi in cui sette angeli, insieme al malak tâ’ûs, sono gli artefici della creazione. Anche nello yazidismo, come per gli ahl-i Haqq vi sono delle manifestazioni cicliche della divinità (Muhammad, Gesù, ecc.) come garanti secolari della salvezza.

3.7. l’islam sunnita

L’islam  sunnita  o  ortodosso  è quello che con 800 milioni di fedeli raccoglie il 90% di tutta la umma musulmana. Il sunnismo ama definirsi ahl as-sunna wa ‘l-giama’ (= gente della tradizione e della comunità), dove più che il termine Sunna (la raccolta delle tradizioni del profeta), quello che li specifica è il termine comunità, intendendo con esso la dottrina secondo la quale l’interpretazione comunitaria del Corano, dopo la morte del Profeta, non è più competenza di una persona (come nell’imâmismo duodecimano e nell’ismailismo), ma della intera umma che la esprime con lo studio ed il consenso dei suoi teologi. Gli sciiti potrebbero benissimo essere definiti ahl as-sunna, in quanto anch’essi hanno la Sunna sulla quale basano anzi molte delle loro dottrine, ma non possono essere definiti ahl al-giama’, perché centrale della loro teologia è la specifica compe­tenza dell'imâm come unico interprete del Corano.

Le  fonti della teologia e del diritto nell'islam  sono: il Corano (spiegato e commentato dal tafsìr, l'esegesi), la Sunna (la raccolta  delle tradizioni sui detti e i fatti del Profeta) e la ijmà’ (il consenso dei dottori della fede).

La ijmâ’ (= consenso), terza fonte dell’islam in  ordine di importanza, non è, come si potrebbe pensare, il consenso “di popolo”, ma il consenso dei soli dotti. All’interno del processo di sviluppo del pensiero musulmano, il consenso richiesto è quello degli studiosi dell'interpretazione della legge, qui intesa come applica­zione concreta nella vita pubblica e privata del Corano e della Sunna.

L’islam è una religione basata sul rapporto di misericordia tra il creatore e le sue creature, rapporto che si esprime nell’obbedienza alla rivelazione Coranica.  La fede, nell’islam, non è un fatto privato tra l’individuo e Dio, ma tra l’umanità e Dio. Pertanto la fede in Dio la si deve esprimere come atto della vita pubblica, sociale e dello stato. Avere ben chiaro su quali cardini deve essere organizzata la società e chi in essa deve esercitare l’autorità è della massima importanza per l’islam, perché il musulmano è parte di una comunità chiamata da Dio stesso a ristabilire il rapporto corretto tra Dio e le sue creature.

L'elaborazione  teologica  nell'islam  nasce  per  dare  una risposta a questioni pratiche e politiche del momento; soltanto a cominciare dal secondo secolo dell’egira la teologia comincia a diventare una scienza speculativa. Più che di scuole teologiche sarebbe più corretto parlare di teologi, che creano delle corren­ti di pensiero dando così origine alla scienza del kalàm, che potremmo tradurre con «teologia». Preci­siamo subito che il kalàm non è né la prima né la più importante delle scienze religiose dell'islam, perché l'applicazione del Corano (= la legge divina) e della Sunna (= l'esempio del Profe­ta) nella vita di tutti i giorni è data dal fiqh, il diritto religioso musulmano. Solo il Corano, la Sunna e il fiqh sono necessari e sufficienti a tutti i musulmani.

Se  questo  è vero ed accettato come principio  da  tutti  i musulmani,  è  altrettanto  vero che su certe  questioni il Corano, la Sunna e il fiqh non erano sufficienti a dare delle risposte soddi­sfacenti. Fin dai primi anni, sul fronte interno della comunità, i primi scismi per la legittimità califfale, come abbiamo visto, ponevano dei problemi teologici: il rapporto fede/opere, lo status di un musulmano peccatore, l'origine del male, ecc.. Sul fronte esterno alla comunità, invece, le grandi e rapide conqui­ste costringevano l’islam a confrontarsi con civiltà e religioni molto elaborate che usavano sistemi filosofici molto avanzati. In questa situazione il kalàm, la speculazione teologica musulmana, nacque come difesa e come necessità della definizione del dogma. Più precisamente possiamo dire, con il grande storico musulmano Ibn Khaldûn (m. 1406), che il kalàm è la scienza che intende provare i dogmi della fede con argomentazioni tratte dalla tradi­zione rivelata e con argomentazioni razio­nali, per difendere la fede ortodossa contro i suoi avversari esterni (le altre religioni) o interni (i musulmani “eretici”) e per rispondere alle domande dei credenti[3].

Il pensiero musulmano arrivato fino a noi è frutto di secoli di elaborazione giuridico-teologica e di profondo quanto mai appassionato dibattito tra studiosi musulmani fino a quando la giurisprudenza musulmana (con la chiusura dell'ijtihâd nel X secolo) e la teologia musulmana (con la sintesi di al-Gazzàli nel XII secolo) raggiunsero gli equilibri finali di ampio consenso. Fin dal suo sorgere l’islam assunse lineamenti peculiari più o meno marcati a seconda del grado d’influenza esercitato dalla cultura locale. Nelle città della Penisola Arabica si era inclini a fissarsi sui modelli di devozione pratica antispeculativa delle prime generazioni; in Siria si manifestava l’influenza ed il confronto con il pensiero ellenistico-cristiano; nell’Iraq l'in­fluenza proveniva da correnti gnostiche. Se la discriminante per essere musulmano era la sola professione di fede, quale sarebbe stato l’islam ortodosso? Sorsero così le scuole teologico-giuridiche dell’islam sunnita e che fino ad oggi lo dividono in quattro grandi correnti teologiche fondamentali e in quattro riti di diritto islamico.

Le scuole giuridiche e le scuole teologiche hanno svolto il compito della formulazione graduale dei principi giuridici e teologici dell’islam, anche se, fattore non trascurabile, ha giocato un ruolo importante il potere politico che, pur non in­fluenzando direttamente la ricerca intellettuale, ha comunque spesso favorito il consolidamento delle tendenze dominanti.

Le  scuole giuridiche principali dell'islam sono quattro e sono quelle che l'ortodossia sunnita ha definitivamente accolto e dalle quali ogni musulmano trae i precetti e le norme di vita, secondo l’una o l’altra interpretazione. Esse ovviamente non sono soltanto il risultato della complessa elaborazione dottrinale, ma anche la sintesi del confronto tra la comune e generale legge islamica e le esigenze, la cultura e la sensibilità intellettuale e religiosa dei diversi popoli, nei diversi luoghi e nei diversi periodi.

a. Caratteristica della scuola hanafita è quella di privile­giare l’uso del ragionamento dialettico (ra’y) al ragionamento analogico (qiyàs); per questo è ritenuta la più liberale. Atte­statasi inizialmente in Iraq, si diffuse verso oriente sotto gli abbasidi, ma raggiunse la sua maggiore diffusione sotto gli ottomani. Oggi il rito hanifita è in vigore in molti dei territo­ri dell'ex-impero ottomano, nell'Asia Centrale, in Afghanistan, in India e in Pakistan.

b. Particolarità della scuola malikita, oltre al fatto di privilegiare i hadîth, è di aver accolto anche l'opinione personale (isthsan) del giureconsulto come criterio di valutazione nel giudizio. Essa è soprattutto seguita in Africa Settentrionale, ad eccezione dell'Egitto, e in parte dell'Africa Orientale.

c. Il fondatore della scuola sciafiita Abu ‘Abd Allah Muhammad al-Sciafi’i fu un grande sistematore del fiqh; discepolo di Malik e di tendenze eclettiche scelse una posizione mediana tra la libera formulazione della legge ed il tradizionalismo. Fu in polemica contro i hanafiti privilegiando il ragionamento analogi­co al ragionamento dialettico, il qiyàs al ra’y, ma la sua pole­mica non risparmiò neppure i malikiti per la sua opposizione all’uso del parere soggettivo e sostenendo la necessità di regole fisse e oggettive per l'uso del qiyàs. La scuola ha comunque sempre privilegiato la ijma’. Oggi essa è seguita in buona parte dell'Egitto (dove nella moschea-università di al-Azhar dal 1870 il corpo insegnante è quasi tutto sciafiita), nel Bahrain, nell’arcipelago malese, in Arabia Meridionale, in Africa Orienta­le, nel Daghistan e in alcune zone dell'Asia Centrale.   

d. Il  carattere principale della quarta scuola, detta hanbalita, è da individuare nell’aver privilegiato il Corano e la Sunna in una lettura stret­tamente letteralista, senza alcun uso del ra’y e con uso limita­to del qiyàs , in difesa della tradizione a cui si doveva ricorre­re il più possibile. Fu sempre una scuola molto radicale, contra­ria a qualsiasi tipo di innovazione e intollerante nei confronti di ogni influsso esterno all’islam. E' sempre stata una scuola poco seguita, soltanto nell’Arabia Saudita, nell’Oman e nei paesi del Golfo Persico.

3.8. la mistica

L’islam ortodosso, definito dal fiqh e dal kalàm, è un siste­ma unitario, chiaro e coerente, ma è visto dalla grande massa dei musulmani come un modello teorico verso cui tendere. Tutta la questione giuridica e teologica dell’islam fu opera di un gruppo estremamente ristretto rispetto all’intera umma musulmana che si è addentrato in questioni certamente importanti, ma che hanno allo stesso tempo lasciato nell’indifferenza gran parte della comunità. Se il Corano fosse stato ridotto solo a “legge” e “teologia” probabilmente l’islam non sarebbe sopravvissuto o comunque non avrebbe dato vita ad una grande civiltà. Se ciò è avvenuto, gran parte del merito va al movimento sufi, che ha dato un insostituibile contributo di vitalità alla umma musulmana e che affonda le sue radici nella ricca spiritualità dell’islam delle origini sviluppandosi con affascinanti figure di mistici, poeti, filosofi e teologi.

Le origini del sufismo sono oscure in quanto non nacque come movimento organizzato dalla spinta di un fondatore (come lo è stato per le scuole giuridiche e teologiche) e con un sistema dottrinale ben definito. Libero da ogni autorità di riferimento o da una linea definita, il sufismo prese diverse forme e  direzio­ni:  si formarono gruppi e comunità di tipo monastico, delle isolate personalità fortemente mistiche che conducevano una vita da eremita, ma soprattutto plasmò a livelli  più semplici la religiosità popolare. L'origine del termine sufi sembra essere connessa con l’uso d’ indossare indumenti di lana non tinti (=s uf). Nel primo secolo dell’ègira appaiono le prime tracce di organizzazioni collettive sotto forma di piccoli gruppi che si radunavano per discussioni religiose. Nello stesso periodo sorgo­no i primi “conventi” (a successione di celle, come gli eremitag­gi della chiesa  orientale melkita, o in grotte, come nestoriani). Gruppi di sufi s’incontravano per recitare ad  alta voce  il  Corano, recitazione che assunse pian piano un  vero e proprio carattere liturgico (il dhikr) fino a diventare momento di estasi comunitaria.

Nel XII secolo cominciarono a sorgere le famose confraterni­te sufi, che diedero un importantissimo appoggio spirituale a tutta la comunità musulmana, in quel periodo disorientata da molte calamità (la fine del califfato abbaside, le crociate, l’invasione turca e l’invasione mongola). Il nome arabo (e per­siano) per «confraternita» è tàriqa (= via) nell’accezione di «regola». Le confraternite sufi, tutte nell'ambito della sola ortodossia, sono esistenti ed attive fino ai nostri giorni. Il capo della confraternita, lo sceikh (= maestro), la cui genealogia spirituale “esoterica” si ritiene parta dal Profeta stesso, ha autorità assoluta e gli si attribuiscono speciali doni, la conoscenza di insegnamenti segreti e la bàraka (=benedizione), una sorta di flusso benefico proveniente da Dio e di cui è dispensa­tore.

Ogni confraternita ha una regola ed un rituale stabiliti dal fondatore; rituale che non sostituisce mai le cinque preghiere canoniche, ma che invece completa con forme di culto estatico. I membri delle tariqe sono di due tipi: i residenti, che abitano nella sede della confraternita, e quelli che, dopo avervi tra­scorso un periodo in cui hanno ricevuto l’istruzione, ritornano alle loro case ed alle loro occupazioni forti della bàraka del maestro e più osservanti nei doveri religiosi, custodi dei segre­ti della propria confraternita della quale praticano le partico­lari devozioni, alla quale di tanto in tanto ritornano per riti­rarsi ed al cui mantenimento contribuiscono con quote  fisse. Questa breve esposizione non ci consente di addentrarci in quello che si potrebbe tentare di dire sulle singole e più note confra­ternite, delle quali si possono solo cogliere gli strati più in superficie e meramente descrittivi, vigendo il vecchio detto (quando ci si imbatte in gruppi esoterici) che afferma: «chi sa non parla e chi parla non sa». Possiamo però dire che l’islam dell’immigrazione europea sembra che si stia conformando con l’appartenenza alle tariqe, le quali hanno il vantaggio di far sentire più concretamente e più a livello personale l’appartenenza e la pratica dell’islam in società che gettano nell’emarginazione e nell’anonimato gli immigrati musulmani, soprattutto quelli so­cialmente e culturalmente più deboli.

3.9. le sette sunnite

Il millenarismo è stato presente nello sciismo e nell’ismailismo fin dal loro sorgere, ma solo nel XIX secolo esso è apparso anche nel sunnismo con il movimento degli ahmandiyya. Esso nasce per opera di Ghul­âm Ahmad che nell’ultimo decennio del secolo scorso affermava di aver ricevuto rivelazioni divine. Attorno a lui si raccolgono dei seguaci che ritengono Ghulâm Ahmad il mahadi, come egli stesso si riteneva, il messia, krishna ridisceso, Gesù ritornato, Muhammad redivivo. Alla morte di Ghulâm Ahmad il movimento si divide in due, uno con sede a Lahore e l’altro, largamente maggioritaria, rimase a Qadiyan, dove il movimento era sorto e dove continuava sotto la guida spirituale del figlio di Ghulâm Ahmad. Quando si parla degli Ahmandiyya oggi generalmente si intende questo gruppo, diffuso in India, Pakistan Africa Occidentale e nel sud-est asiatico nonché in Europa ed America. Dal 1947 la sede ufficiale del movimento, che oggi conta circa un milione di membri, si trova a Rabwan in Pakistan[4].

4. L’alterità etnica: l’occidentale

E' comune ormai chiamare «musulmano» o «marocchino», qualunque immigrato provenga dal Nordafrica o dal Medio Oriente, prova questa di un erronea idea di un universo umano socialmente monolitico. Il semplicismo del linguaggio corrente comprime e occulta ogni specificità confinando ogni cosa sotto l’espressione «mondo islamico». Ma il cosiddetto “mondo islamico” è una categoria largamente ideologica e, come la categoria che racchiude l'«Occidente cristiano» o il «mondo cristiano» affatto monolitico e compatto, è anch’essa estremamente frammentata, policentrica, con notevoli differenze teologiche, etno-culturali, socio-economiche e politico istituzionali.

Se dobbiamo parlare di mondi contrapposti non dobbiamo allora contrapporre le categorie «mondo islamico» / «mondo cristiano», ma eventualmente «mondo orientale» / «mondo occidentale». Perché negli stereotipi collettivi, per un mediorientale, l’altro non è «il cristiano», perché in questa categoria rientrerebbe il suo vicino di casa melchita o maronita che non è «molto diverso» da lui. Lo stereotipo è invece l’italiano, il francese, l’americano... Esattamente come per noi che consideriamo erroneamente tutti i mediorientali «arabi», come per dire «musulmani».

L’islam e la politica è un tema sempre più di attualità. E' proprio a causa dei grandi avvenimenti politici in cui sono a centro le nazioni e i popoli musulmani, infatti, che l’occidente comincia ad occuparsi lentamente (e confusamente) dell’islam. Anche se per gli stessi musulmani religione e politica sono un tutt’uno, a mio avviso però l’occidente, nella sua analisi politica dell'area musulmana, sottolinea troppo il fattore religioso più di altri fattori (sociali, economici, politici) se non più importanti almeno altrettanto importanti.

L'impressione generale che viene fuori da una attenta analisi dei mass-media occidentali è la volontà di far leva sullo steccato religioso che separa l’oriente dall’occidente e di riproporre continuamente l’immagine stereotipata del musulmano fanatico, guerrafondaio, retrogrado e violento.

Il colonialismo dei paesi europei nei confronti dei paesi musulmani non iniziò con l’occupazione militare di quei territori. Gli intellettuali musulmani vedono diverse fasi di «penetrazione» dell’Occidente nei paesi musulmani: una prima fase di penetrazione culturale, una seconda fase di imposizione economica, una terza fase di ingerenza politica ed un ultima fase di occupazione militare. La libertà e l’indipendenza, secondo gli odierni movimenti radicali islamici, deve procedere nel percorso inverso ed ottenere l’indipendenza militare, politica, economica e culturale: processo di liberazione - per questi movimenti - ancora in atto!

L’idea di fondo di attenersi alle fonti della fede e della tradizione dell’islam originario permane fino ad oggi in tutto il pensiero intellettuale, teologico ed ideologico dei movimenti culturali, religiosi e politici dell’islam contemporaneo. E’ del 1980 la frase di Târiq al-Bishri (scrittore-giurista egiziano, vice presidente del Consiglio di Stato): «La lotta non è più tra il progresso e la reazione, ma tra l’endogeno e l’esogeno, tra l’ereditato e l’importato».

Nei confronti della cultura occidentale, comunque,  possiamo parlare di tre possibili atteggiamenti generali nell’islam che perdurano dal periodo della sua espansione fino ai nostri giorni. Il primo atteggiamento è  quello del rifiuto. Il secondo atteggiamento è quello dell'accettazione totale. Il terzo atteggiamento è  quello di cercare una via mediana che accolga quella parte del pensiero occidentale compatibile con l'islam e suscettibile di rielaborazione.

Già fin dal periodo della sua espansione politico-militare del VII e VIII secolo l’islam ha dovuto sempre prendere coscienza e difendere la sua ortodossia dalle «influenze straniere» (bid’â) per mantenere l’autentica «tradizione» dell’islam (sunna). La filosofia aristotelica, lo gnosticismo, lo zoroastrismo furono solo le iniziali grandi influenze culturali che l’islam dovette fronteggiare con un continuo richiamo alle fonti della fede: il Corano e la Sunna. La stessa nascita delle scuole teologico-giuridiche dell’islam avevano lo scopo di definire e di difendere l’ortodossia; come anche la chiusura della ricerca speculativa  (ijtihâd) nel sunnismo, avvenuta nel X secolo, aveva il chiaro scopo di non permettere che influenze esterne prendessero piede nell’islam. E’ bene però tentare di chiarire la mappa terminologica sui concetti inerenti l’islam contemporaneo e che oggi sembra un gioco di codificazione e di decodificazione assi arduo. Dopo l’indipendenza politica, dopo aver avviato il processo di indipendenza economica, i movimenti islamici mirano a riappropriarsi dei territori ideologici conquistati dall’Occidente. E’ proprio della rottura terminologica politica dell’Occidente che si nutrono i movimenti islamici odierni, da cui i tanti malintesi e la difficoltà degli occidentali a capire il fenomeno dell’islamismo. Termini come fondamentalismo, integralismo, tradizionalismo, radicalismo sono molto spesso usati indifferentemente. Ciò denota la difficoltà di comprendere la realtà politica e religiosa dell’area musulmana sia nelle sue specificità che nelle diversità. Prenderemo pertanto in esame il fenomeno dei movimenti islamici odierni per poter cercare di chiarire la mappa terminologica che si usa, a proposito o a sproposito, per riferirsi a tutto ciò che si riferisce all’islam.

Nel XIX secolo il movimento intellettuale della nahda nasce soprattutto come apologia dell’islam contrapposto da una parte all'occidente e dall’altra alle classi religiose ed intellettuali musulmane ree di aver affossato l'islam nel taqlìd (= imitazione servile), rivendicando la riappropriazione dell’ijtihàd (la riflessione personale). Su questi due fronti si delinea l’intera elaborazione del pensiero moderno musulmano, che tenta sia di superare il complesso di essere stati superati culturalmente e tecnologicamente dall’occidente, sia di rivalutare il passato aureo dell’islam (l'epoca del Profeta e dei primi quattro califfi). Per esemplificazione, ma anche per comprendere le correnti attuali del pensiero politico islamico, possiamo distinguere tre correnti principali di questo movimento intellettuale di risveglio: il tradizionalismo, il fondamentalismo ed il modernismo (la salafìiyya).

Le popolazioni musulmane hanno respinto l’esperimento modernizzatore di Kemal Atatürk che, per integrare la Turchia musulmana nell’Occidente moderno, allo scopo di acquisirne la potenza economica e militare, arrivò ad un vera e propria capitolazione culturale. Atatürk, infatti, voleva ridurre la religione a problema privato, come il cristianesimo nell’Occidente secolarizzato, usando la costrizione più brutale, ma le sue riforme non hanno ottenuto i risultati voluti. Molto più consenso, invece, ha avuto nell’islam l’atteggiamento che, senza arrivare ad una capitolazione culturale, riconosce la necessità di una certa modernizzazione, ammettendo che solo a questo prezzo si può ridare vitalità alle società musulmane. Tale accettazione almeno parziale della modernità caratterizza la maggior parte dei movimenti di riforma e di «risveglio» che operano oggi nelle società musulmane, anche quelle che respingono l’Occidente. Esiste infatti una nozione ben precisa a voler dissociare le due nozioni di «Occidente» e di «modernità», considerando peggiorativa la prima e prestigiosa la seconda. Lo slogan a questo punto diventa: «i musulmani si devono modernizzare ma non occidentalizzare». Su questa riflessione oggi c’è dibattito acceso nell’islam, sia in quello che vive entro i confini storici delle società musulmane sia in quello europeo.         

Il ricorso al patrimonio islamico in questi ultimi anni ha approfondito la tensione tra «modernisti», «riformisti» e «radicali». Sempre più viene affermata la tesi secondo cui l’islam deve di nuovo esser compreso come sistema universale che ha le risposte a tutte le domande che una società di oggi può porre. Il rinnovamento islamico attuale è  cosciente che, se si limita alla sola sfera del privato, l’islam corre il rischio di perdere la sua ispirazione originaria come punto di riferimento fondamentale ai problemi sociali, politici ed economici. In questo, per i riformisti musulmani, il cristianesimo rappresenta il cattivo esempio di una religione che ha perduto la sua influenza nella società compromettendo, se questo fosse possibile, o comunque rallentando, la realizzazione del regno di Dio. Per questo è  centrale, nei movimenti di riformismo islamico, la riscoperta della propria identità. Il fatto che molti governi musulmani, orientati verso l'occidentalizzazione, non hanno risolto i problemi dei loro paesi, ha fatto sì che l’idea di una società giusta islamica sia divenuta fonte di speranza di un avvenire migliore. Questi concetti appena esposti sono la matrice di molti pensatori musulmani contemporanei, ma sono anche gli slogan del radicalismo musulmano.

E’ qui che bisogna cominciare a distinguere le varie correnti di pensiero e tentare di capire la terminologia usata in ambito musulmano e in ambito europeo.

Oggi si tende, sia nel linguaggio comune sia in quello giornalistico ed accademico, ad usare indifferentemente i termini «islam» e «islamismo», termini che a volte sono scritti con lettera iniziale maiuscola a volte minuscola. L’uso del maiuscolo deriva dalla lingua inglese, ma in italiano islam o islamismo lo si scrive con lettera minuscola così come con lettera minuscola si scrive «cristianesimo», «ebraismo», ecc.. Ma più attenzione bisogna porre sull’uso del termine «islamismo». Forse fino a 10 o a 5 anni fa questo interscambio dei due termini poteva essere consentito, ma oggi essi assumono significati diversi, perché diverso è il significato del termine «musulmano» e «islamico». Nell’uso corrente il termine «islamico» è legato alla cultura derivata dalla civiltà sorta con l’islam e non ha un’accezione religiosa, e quest’uso rimarrà ancora nel nostro linguaggio.

Bisogna però prendere atto che tutti gli islamici sono musulmani, ma non tutti i musulmani sono islamici. Non si deve confondere un fenomeno politico-religioso con una fede ed una cultura millenaria sorta con la rivelazione coranica e sviluppatasi soprattutto al di fuori dei territori tradizionalmente arabi.

L’islam è antico, ma l’islamismo - nell’accezione di movimento politico - è un fenomeno recente, sorto agli inizi degli anni settanta ed inteso, dagli stessi islamici, come un movimento di rinnovamento della comprensione dell’islam. E’ pertanto necessario oggi distinguere tra «islâmiyyûn» (islamici) e «muslimûn» (i credenti musulmani). Non è corretto identificare una parte della umma musulmana con la totalità.

Nella lingua italiana diversi studiosi hanno già cercato di distinguere terminologicamente l’islam dal fenomeno politico definendo questo «islam radicale», «islamismo radicale» o «islam politico». Per «islamismo» si dovrebbe intendere oggi proprio quella parte della umma che intende svolgere al suo interno una funzione di guida morale e politica.

L’islamismo prosegue le rivendicazioni nazionalistiche delle aree arabe, come ulteriore stadio del lungo processo di autodeterminazione. Da sempre nell’islam religione e politica si sono dati mutuo sostegno. E’ necessario pertanto sciogliere l’intreccio terminologico che appiattisce, in una sorta di immaginario collettivo dell’occidente, una realtà complessa come quella dei movimenti islamici odierni.

Ci sono quattro punti per comprendere l’islamismo radicale nel suo rapporto con l’occidente o, meglio, con la sua ricerca di una propria via alla modernità contrapposta a quella occidentale:

1)   La modernità si è presentata al mondo arabo-musulmano con la pretesa di universalità, mentre non si trattava altro che dell’assunzione a criteri universali di qualcosa che apparteneva alla sola cultura occidentale.

2)   La modernità ha provocato nelle società musulmane la coscienza di una sfasatura rispetto ad essa non solo cronologica, ma anche ontologica.

3)   La modernità è sempre andata di pari passo con l’occidentalizzazione.

4)   I musulmani nel loro rapporto con la modernità hanno perduto alcuni dei propri riferimenti culturali, costretti a delle lacerazioni e obbligati a rivedere concezioni fondamentali del loro sapere e senza arrivare finora a nuove sintesi culturali, con l’ulteriore conseguenza che il mondo arabo-musulmano avverte una doppia alienazione sia rispetto alla modernità, perché non è moderno, sia rispetto alla tradizione, perché non è tradizionale[5].

4.1 il tradizionalismo

Sia in terra musulmana che altrove, ci sono sempre state correnti e ideologie politiche legate alla tradizione. Ma se per tradizione s’intende conservatorismo, tale categoria allora non può essere riferita ai movimenti islamici odierni. Il tradizionalismo, inteso come emulazione di un passato ideale, che si vuole riproporre immutato, non fa progetti politici. Esso è più interessato alla moralizzazione della società che alla giustizia sociale, che invece è un tema centrale dei movimenti islamici. Il tradizionalismo, che nell’islam è conservatorismo, è la tendenza a conservare l’ordine esistente e ad opporsi ai cambiamenti. Tutto ciò che è modernità, che è innovazione viene rigettato dal tradizionalismo che rivendica un ritorno al passato. Ma la domanda che sorge spontanea è «a quale passato?»: quello precedente il colonialismo, quello precedente l’influsso culturale dell’Europa cristiana, o della filosofia greca o dello gnosticismo iranico? I fondamentalisti americani e delle aree evangelicali, rientrerebbero in questa categoria. Nel linguaggio islamico essi sarebbero dei conservatori e non dei fondamentalisti.

4.2. il fondamentalismo

Il fondamentalismo è una corrente radicale che cerca di liberare le antiche e genuine tradizioni delle prime generazioni di musulmani da tutte le innovazioni successive, per tornare al Corano e alla Sunna ed al primo consenso (la ijma’) nella ricerca del «puro islam».

L’elemento principale del fondamentalismo cristiano è il rifiuto della critica biblica. Se trasportiamo questo in ambito musulmano sostituendo la critica biblica con lo studio critico del Corano, allora tutto l’islam è fondamentalista.

Sarebbe come se trasportassimo nel cattolicesimo lo studio scientifico della transustanziazione. Il corpo eucaristico di Cristo per i cattolici, non lo si può studiare al microscopio, lo stesso vale per il Corano nell’islam. Il fondamentalismo, in ambito musulmano, non è la critica alla teologia, ma una corrente teologica ben precisa. Spesso il fondamentalismo viene considerato sinonimo di conservatorismo: questo non è corretto. Diversamente dal tradizionalismo, il fondamentalismo non è conservatore, ma è sostenitore del ritorno alle fonti della fede musulmana: non un ritorno al passato, ma alla fede... a Dio! Il fondamentalismo rifiuta l’ordine esistente in quanto non è conforme ai principi puri e originari dell’islam. Per il fondamentalismo allora il nemico non è la modernità, ma la tradizione.

In questa prospettiva i movimenti islamici si ritrovano nella tendenza fondamentalista di riformismo, di ritorno alla purezza originaria che poneva a diretto contatto il Corano e la realtà del momento. Il loro nemico sono quelle tradizioni rivestite di una certa sacralità e intoccabilità, quelle credenze e sistemi dottrinali ereditate come retaggio storico, ma che non fanno parte della Rivelazione. Esso vorrebbe il cambiamento in quanto modellamento della società secondo l’esempio della Sunna del Profeta, quando non c’erano né divisioni all’interno della umma musulmana né innovazioni provenienti dall’esterno (bid’a). Ciò spiega perché, diversamente dai fondamentalisti cristiani, i movimenti fondamentalisti nell’islam sono spesso militanti e legati a movimenti politici. Da qui nascono due tendenze odierne del fondamentalismo: una tendenza «attiva» che abbraccia la militanza e la progettualità politica; una tendenza «passiva» che invece si limita al richiamo morale verso la pura fede dell’islam. Mentre i movimenti islamici rivendicano per sé la tendenza «attiva», attribuiscono agli ‘ulema, alla classe religiosa istituzionale, la tendenza «passiva».

4.3. il modernismo (la salafiyya)

Quella che chiamiamo la corrente modernista, vede invece nel solo Corano la fonte della sua ricerca, non considerando la Sunna e tentandone una lettura moderna; essa ricerca «il puro Corano». Essa opera però all’interno di esso una cesura tra ciò che è il contesto iniziale della rivelazione da ciò che è il suo «spirito essenziale» valido universalmente; essa ricerca «la pura rivelazione».

Dall’espressione «salaf as-salihin» (= i pii antichi) fu designato qual movimento intellettuale sorto alla fine del XIX secolo in Egitto e da dove ha esercitato una profonda influenza  in tutti i paesi di cultura musulmana. La salafiyya cercava di mediare l’islam con le esigenze intellettuali dell’umanesimo laico sostenendo che là dove l’islam si trovava in conflitto con le esigenze moderne, la legge islamica poteva essere modificata. Il suo massimo teorico, il teologo Muhammad ‘Abduh, riteneva che sarebbero dovute essere abolite le quattro scuole giuridiche islamiche, lasciando il posto ad un diritto islamico unificato e rifondato per essere più rispondente alle esigenze moderne.

Oggi tra movimenti islamici vi è una percezione ed una opinione diversificata sulla salafiyya. Alcuni tra i leader più accreditati rimproverano alla salafiyya di aver riconosciuto la «superiorità» culturale rispetto all’islam a cui era arrivato l’occidente e di avere, di conseguenza, portato il mondo islamico verso di esso.

L’immagine che i mass media occidentale veicolano della corrente modernista musulmana è quella di individui e di correnti democratiche come le intende l’occidente; ma in realtà non è così o meglio non è così percepita da molti intellettuali musulmani che avvertono una falsa modernizzazione fatta di manipolazioni, arrangiamenti e bricolage ad imitazione dell’occidente. Attualmente, con la crescita dell’islamismo radicale, i cosiddetti «modernisti» tentano di accaparrarsi qualche nozione di islamismo per proteggersi dall’anatema di essere additati come kefir (= infedeli) e per evitare che si possa dire di loro che non praticano la religione, che non sono dei buoni musulmani ed essere quindi votati alla morte. Ciò fa sì che oggi, stranamente, la corrente modernista porta aventi tesi tradizionaliste.

4.4. le tre adozioni

Se è perdonabile schematizzare il confronto delle società musulmane con l’occidente, possiamo  delineare tre momenti in cui questo confronto ha assunto caratteri specifici, in cui la società musulmana ha adottato ciò che riteneva compatibile con la sua cultura nel cammino verso la modernità da un lato e la difesa della propria identità culturale e religiosa dall’altro.

4.4.1. l’adozione militare

In una prima fase di «adozione parziale» dell’Occidente, fin dall’inizio dei movimenti di riforma, i gran muftì, i gruppi sufi, gli strati tradizionalisti della società musulmana e i gruppi radicali erano concordi con una riforma che adottasse tutte le riforme militari che potessero contrastare la supremazia occidentale. La classe militare e dell’amministrazione dello Stato è quella portante di questa fase.

4.4.2. l’adozione tecnologica

‘Abu-l-‘Ala Al-Maududi (1903-1979), considerato il più coerente pensatore del fondamentalismo islamico, fu il precursore ed il promotore dell’adozione tecnologica nella società islamica. Siamo in una seconda fase in cui si riscontrano gli aspetti positivi delle conquiste tecnologiche dell’Occidente e si adottano. Mauduti, uno dei più grandi ideologi del radicalismo islamico contemporaneo, parlava dell’Occidente con ammirazione stupefatta ed esortava l’islam a ricercare il segreto della sua incredibile forza, ma ammonendo - allo stesso tempo - di compiere una cernita: prendere le sue virtù, ma non i suoi vizi, né il suo sistema culturale, né, soprattutto, il suo sistema democratico. Per il pensiero di Maududi infatti la democrazia, in quanto sistema umano, è opposto alla Hakimiyya, il governo di Dio. Gli ingegneri, i medici, i fisici, le classi che adoperano i ritrovati più moderni della tecnologia sono i sostenitori e gli affascinati di questa fase.

4.4.3. l’adozione della democrazia

Attualmente assistiamo al sorgere di una ulteriore adozione parziale dell’Occidente. Diversi tra i più seguiti pensatori islamici contemporanei si sono avviati in una fase di superamento del pensiero maududita della hakimiyya ed affermano che bisogna adottare la cultura dell’Occidente, la sua ideologia attraverso il volano della democrazia. I più noti di questo pensiero sono proprio i fratelli musulmani che hanno conquistato alla loro militanza medici, farmacisti e avvocati. Diversamente che da Maududi, oggi si insiste sulla compatibilità tra il processo democratico e la democrazia. I leader radicali più disposti a questa apertura democratica sono proprio - strano a dirsi - Hassan Turabi e Rashid Gannushi, la cui opera è tutta improntata alle libertà. Il primo, sudanese, è sostenitore, a volte in modo palese a volte tacitamente, dell’attuale regime di repressione di Omar al-Bashir. Il secondo è l’ideologo della nahda tunisina, islamista radicale e bandito dall’attuale governo tunisino. Ma in questi due pensatori forse assistiamo ad un concetto di democrazia che si innesta su strutture mentali antidemocratiche, come quando Gannushi parla sì di libertà democratiche, ma dicendo che queste devono essere imposte dallo Stato.

Il progetto politico e culturale di una società moderna, ma non occidentale, che è vincente nella cultura e nella politica dei paesi musulmani, è un processo in atto e non è un processo di per sé negativo. Sia noi europei che la stragrande maggioranza dei musulmani siamo disorientati e preoccupati per i risvolti cruenti che la lotta di alcuni gruppi radicali islamici hanno intrapreso. Anche se religione e società non sono facilmente scindibili nella fede e nella cultura islamiche, dobbiamo saper distinguere tra il dibattito teologico-culturale della umma musulmana e le rivendicazioni politico-sociali delle società musulmane.

Al di là degli avvenimenti e delle congiunture, è chiaro che nelle società musulmane la dinamica di affermazione collettiva e pubblica dell’ideologia islamica non si arresterà finché non saranno risolte le motivazioni di fondo che l’hanno provocata e non è facile prevedere gli orientamenti che prevarranno negli anni a venire. E’ ovvio che anche per i musulmani europei quello che avviene nelle società musulmane è un punto di vista dei simboli, delle idee e delle organizzazioni. Il problema sarà quello di vedere a quali modelli l’islam europeo farà riferimento e quale sarà il suo grado di autonomia e la capacità di produrre i propri significati.

Il timore vivamente sentito tra alcune élite dell’immigrazione musulmana, che il loro patrimonio religioso e culturale si decomponesse e dissolvesse, ha favorito fino ad oggi irrigidimenti o fughe in avanti, nel tentativo di affermare la propria identità collettiva.

Sarà inevitabile che l’islam europeo, nella fedeltà a Dio ed alla sua rivelazione, dovrà formulare una risposta originale, inedita per i musulmani, come minoranza in una società pluralista e secolarizzata.

5. Conclusioni: l’islam e l’Europa oggi

Una tra le tante riflessioni sorte sulla Guerra del Golfo è che questa, oltre ad accentuare gli stereotipi dell’immaginario collettivo, ha soprattutto rafforzato l’immagine della bipolarità «islam-Occidente». Questa bipolarità sembra affermarsi in sostituzione alla bipolarità ormai crollata «Est-Ovest». L’anima divisa e ritrovata dell’Europa, mentre faticosamente cercava di rimuovere e recuperare molte delle cose che prima dall’una o dall’altra parte si ritenevano «estranee», cercando di contrapporre qualcosa che fosse altro da sé, «estranea», al fine forse di rafforzare o di ritrovare una sua ipotetica identità unitaria europea, ha preso atto con la guerra nella ex-Jugoslavia come questo processo non sia ancora avviato. Caduto il muro di pietra che spaccava in due Berlino forse se ne sta costruendo idealmente un altro di acqua che vorrebbe spaccare in due il Mediterraneo in senso longitudinale, con la differenza però che da questa parte del muro vivono 7 milioni di musulmani. Questo sciagurato muro, infatti, chi lo vorrà ergere dovrà farlo tra i quartieri, nelle fabbriche, nei condomini, nella scuola cementandolo con arroganza, pregiudizi, paure, odio.

Questo muro, però, non è costruito soltanto dalla parte occidentale, ma da entrambe le parti. L’Occidente è costantemente caricaturato e denunciato, in ambiente musulmano, come portatore di decadenza e di tutte le perversioni. I valori e la realtà vissuta dal cristianesimo e dalle chiese sono molto spesso denaturate dai pregiudizi ereditati dal passato e rafforzati da una loro lettura superficiale. Allo stesso modo il rinnovamento islamico contemporaneo è sbrigativamente marchiato d’integralismo o di fondamentalismo senza tener conto dell’aspirazione ad una più grande giustizia sociale ed ad una più larga partecipazione alla vita nazionale. Gli estremisti che ricorrono al terrorismo in nome dell’islam sono confusi, in Occidente, con correnti politiche che protestano contro i regimi sottomessi alle politiche occidentali, o con movimenti di risveglio religioso in una società confrontata con la secolarizzazione.

Se da un lato  non si deve essere né superficiali né ingenui nell’analizzare l’islam e la società musulmana, ponendosi in un atteggiamento di rispetto cieco e acritico, dall'altro lato (considerando un arco storico più ampio di quello contemporaneo) non dobbiamo dimenticare neppure che l’occidente cristiano non è da molto tempo né ancora del tutto liberato da quegli stessi «orrori» che si contestano alle società musulmane (l'emancipazione della donna, il fanatismo, la violenza, ecc.).

Ci si dovrà liberare dagli stereotipi e dalla superficialità degli uni verso gli altri ed accorgersi che la differenza tra conservatori e progressisti, tra oppressori e oppressi, tra adepti della violenza e partigiani del processo di liberazione del proprio popolo, non corrisponde alla differenza tra mondo occidentale e mondo musulmano, ma sono fratture all’interno delle società e dei processi di pensiero che si dibattono e combattono nelle rispettive società.  Noi conosciamo una teologia della liberazione in America Latina, in ambito cristiano, che ha dei punti di convergenza col pensiero dell’iraniano Ali Shariati o con l’egiziano Sayyd Qutb. Allo stesso modo il rigido conservatorismo delle autorità saudite e il loro diniego dei diritti dell’uomo non è molto diverso dalla destra occidentale, specialmente americana con la sua componente di cristiani fondamentalisti. I discorsi d’apertura al dialogo, da una parte e dall’altra, non sono accolti con favore dalla base delle comunità. Né gli scritti di apertura di Kamel Hussain, in Egitto, o gli appelli al dialogo del tunisino Muhammad Talbi hanno prodotto una inversione di tendenza. Non solo le prediche degli imam sono ancora aggressive nei confronti dei cristiani, ma gli stessi testi scolastici degli studenti musulmani sono parziali e faziosi quando trattano il cristianesimo e ripropongono i pregiudizi e gli stereotipi dell’apologia musulmana. Esattamente ciò che si ritrova nei testi scolastici dell’occidente quando questi trattano l’islam. Se, sul versante cristiano, gli artefici del dialogo islamo-cristiano, incontrano un sempre maggiore sostegno, sia nella chiesa cattolica che in quelle protestanti, è anche vero che essi hanno chi li contrasta sia nel seno della chiesa che nella società dove questo discorso deve fare i conti con la diffusa paura dell’islam. La presenza musulmana in Europa fa sorgere molte domande e molte ansie negli europei. Come si svilupperà l’islam in Europa? Sarà aggressivo, prepotente, invadente, vorrà far scomparire il cristianesimo come ha fatto nel Nord Africa e come sta accadendo in Medio Oriente? Perché i musulmani possono costruire le loro moschee in Europa ed i cristiani in Turchia non possono né costruire né restaurare le loro chiese e in diversi paesi della Penisola Arabica non è loro consentito non solo di avere chiese, ma neppure di tenere il loro culto? Come si potrà conciliare la legge islamica con gli ordinamenti giuridici europei e come si potranno conciliare la secolarizzazione e laicità tipiche della cultura europea con l’islam?

Il principale nodo su cui il pensiero musulmano contemporaneo è chiamato a riflettere è  quello del rapporto tra lo stato e la religione, quindi il problema della religione di stato, della laicità dello stato, della secolarizzazione. Da questo consegue il serio problema dell’applicazione del diritto islamico negli ordinamenti giuridici europei: il rapporto tra la sciarìa e i diritti dell'uomo, e quindi il problema del diritto di famiglia, dell’emancipazione della donna e dell’uguaglianza legale tra i due sessi.

Non esiste altra via da percorrere che quella dell'incontro e del dialogo, lo vogliamo o no! Non esiste altra via che la costruzione di una società in cui la vita sia degna per tutti.

I cristiani hanno ampiamente contribuito alla costruzione della società industrializzata europea nella quale oggi vivono con dei musulmani. Essi conoscono le strutture ed i ritmi di questa società e ne ravvisano alcuni aspetti positivi molto importanti e dai quali ritengono non bisogna tornare indietro. Sono di solito favorevoli, per esempio, alla separazione tra stato e chiesa, sostengono la positività del pluralismo religioso e culturale in uno stato laico e secolarizzato, difendono la libertà dell'individuo e lottano per la giustizia. Ci sono musulmani invece che intendono mantenere anche in Europa alcuni principi “forti” della loro società: cosa fare?

Il  dialogo costituisce un aspetto essenziale del servizio che i cristiani possono offrire alla società, dove è in gioco la loro credibilità e la loro testimonianza. Il dialogo e l'incontro sono possibili a diversi livelli: sul piano dell’esperienza quotidiana per le questioni sociali, comunitarie, familiari, etiche, ecologiche; sul piano dell’incontro delle culture per il rispetto e la migliore conoscenza reciproca; sul piano politico per questioni che riguardano la sicurezza economica, culturale e giuridica.

Il futuro pone domande non facili sia agli europei sia ai musulmani, entrambi in fase di riflessione sulla costruzione della società moderna. Gli europei sono chiamati a ripensare il proprio progetto collettivo a partire dalla presenza musulmana: si tratta di chiarire innanzitutto se le democrazie dell’Europa occidentale possiedono ancora i valori necessari per integrare quella presenza in una pluralità armoniosa di appartenenze e mantengono la forza indispensabile per progettare le tappe e le istituzioni che dovranno scandire questo processo.

Nel percorso di integrazione ai musulmani europei spetta un compito non facile: riuscire a pensarsi europei senza sacrificare la propria identità musulmana. Non è una missione impossibile, l’esempio dei cristiani in Medio Oriente (pienamente cristiani e allo stesso tempo pienamente arabi per lingua, costumi, abitudini di vita) ne è la prova. Ma questo compito esige la capacità di progettare e formulare le proprie richieste in termini che possano essere compresi ed accettati dalla comunità di accoglienza.

Vi sono dei fenomeni però che ostacolano questo progetto: l’insicurezza personale, la paura, i pregiudizi e l’incapacità all’apertura; cose dalle quali si può cercare di guarire. Ma vi sono ostacoli che provengono dalla differenza delle culture e delle tradizioni e si prenderebbe un grosso abbaglio se non lo si volesse ammettere. Vi sono ostacoli che devono essere superati e conflitti di cui si deve avere coscienza senza né rimuoverli né giustificarli. Un rapporto amichevole arricchisce sicuramente entrambi, ma non è qualcosa che avviene dall’oggi al domani: è un processo che richiede tempo, pazienza, costanza e fede.

(Testo redatto dall’Autore)


 


[1] Sempre al singolare senza mai premettere il nome degli evangelisti.

[2] Ende W., Steinbach U., L’islam Oggi, EDB, Bologna 1993, p 99.

[3] Citato da A. Bausani, op. cit. p.115.

[4] Ende W., Steinbach U., op. cit. p. 775-777.

[5] Dall’articolo di El Bisri Dala, “Islamismo e modernità”, in Franca Pizzini (a cura di ), L’altro: immagine e realtà. Incontro con la sociologia dei paesi arabi, Franco Angeli Ed., Milano 1996, p. 66.

 

 

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