1. Introduzione: le
radici della multiculturalita' europea
Da 1200 anni, tra
periodi di pace e stagioni di guerra, nell’alternarsi di presenze musulmane in
Europa e di insediamenti cristiani sulle sponde dell’Africa e del Medio Oriente,
il rapporto tra mondo arabo e musulmano da un lato ed europeo e cristiano
dall’altro, ha segnato in modo decisivo il destino dei continenti che si
affacciano sul Mediterraneo.
Nell’Europa di
oggi dobbiamo porci con serietà la domanda su cosa sia veramente «estraneo» e
rispetto a che cosa, a quale Europa, rispetto a quale Occidente, oggi si può
parlare di estraneità.
Ma il tema della
«estraneità» è anche molto sentito, e direi anzi centrale, nel dibattito
religioso e culturale dell’islam e dei paesi dove esso è religione e cultura
maggioritaria. Ma è poi vero l’assunto secondo il quale l’islam sarebbe qualcosa
di totalmente estraneo alla fede ed alla cultura europea? E di contro: è vero
l’assunto secondo il quale la fede e la cultura occidentale sono totalmente
estranee all’islam?
1.1. la vicinanza culturale
La presenza
dell’Europa nei paesi in cui l’islam è dominante non è una presenza di una
religione e di una cultura ad essi estranei e con cui hanno dovuto confrontarsi
solo nel periodo delle crociate o del colonialismo. Allo stesso tempo la
presenza dell’islam in Europa non è quella di una religione e di una cultura ad
essa estranee e in essa recentemente introdotte solo a seguito del processo
immigratorio degli ultimi decenni. Da parte musulmana e da parte occidentale
questo dato di fatto lo si deve accogliere con serenità.
Nel periodo
dell’espansione islamica, per diversi secoli, mentre il livello degli studi
declinava rapidamente in occidente, la filosofia e la scienza greche trovavano
una nuova vita nel mondo musulmano. Fra l’VIII ed il X secolo furono tradotte in
arabo, per lo più da traduttori cristiani, le opere della cultura greca,
elaborando dei criteri filologici di notevole livello. Loro merito fu anche la
creazione della lingua filosofica e scientifica araba, la cui precisa
terminologia tecnica ha influenzato profondamente le lingue scientifiche
moderne. In arabo furono tradotte anche tutte le principali opere della
matematica greca, ed anzi alcune di esse ci sono conservate solo nella versione
araba. Anche quando, alla diffusione delle dottrine aristoteliche nel pensiero
teologico islamico, l’ortodossia reagì con al-Ghazali, la polemica è condotta
sempre col metodo razionale acquisito dalla filosofia greca.
L’islam nel
periodo della sua espansione storica e del suo confronto con popolazioni e
culture diverse da quella araba, ha reagito con grande tolleranza e apertura: ha
dato e ricevuto in un processo di espansione fino all’Europa (la Spagna e
l’Italia Meridionale da un lato e i Balcani dall’altro) dalla quale, come un
onda sul bagnasciuga, si è poi ritirato lasciando cultura e popolazioni rimaste
nella fede musulmana.
Come sarebbe
stato il rinascimento europeo senza i testi greci ricuperati in occidente
attraverso le traduzioni dall’arabo in latino, in spagnolo e in ebraico? E' da
poco il contributo dato dagli scienziati musulmani alle scienze matematiche? E
che dire della tecnologia industriale e agricola introdotta dagli arabi in
Europa attraverso la Penisola Iberica e la Sicilia? Per non parlare del gioco
delle carte, degli scacchi, del liuto e dei caratteri della novellistica araba
entrati in quella europea. I filosofi medievali usavano un gran numero di
vocaboli prettamente latini per etimologia, ma arabi per il significato.
Luogo di grande
mediazione erano le fiorenti comunità ebraiche della Francia, d'Italia e
soprattutto della Spagna grazie alla buona preparazione culturale dei rabbini,
conoscitori dell'arabo e del volgare, ma soprattutto avvezzi a tutte le
complessità del pensiero filosofico e scientifico del tempo. Intorno all’anno
mille nascono i primi dizionari dall’arabo al latino. Toledo in Spagna, la
Lorena in Francia, alcuni centri in Inghilterra, Salerno in Italia operano nel
XII secolo un lavoro gigantesco di traduzioni dall’arabo per mettere a
disposizione del mondo occidentale opere di filosofia greca, di medicina, di
matematica, di fisica, di astronomia, di farmacia.
Gli inizi della
cultura scientifica, medica e matematica dell’Europa medioevale provengono dalla
cultura islamica.
Dalla conquista
di Granada nel 1492, per circa quattro secoli e mezzo, la presenza musulmana
scompare dall’Europa come dato sociologicamente ed antropologicamente rilevante.
Per tutto questo
periodo l'islam, la civiltà che ne derivò e i popoli musulmani furono ora
demonizzati, ora indirettamente idealizzati in alcuni aspetti particolari,
relegati nell'immaginario collettivo degli occidentali. Il contatto “fisico” tra
Occidente e Oriente musulmano lo si riprende con le invasioni coloniali.
La cultura
europea del XVIII e XIX secolo (dalla musica, al teatro, alla pittura,
all’architettura ed alla letteratura) era pervasa dal gusto dell’esotico. Il
simbolo di questa «moda» lo si può riscontrare nell’Esposizione Universale di
Parigi del 1900. Ma l’Oriente della «moda» e dell’orientalismo occidentali, non
è l’oriente reale, ma la sua rappresentazione ideale, da cui era diventato
marginale (o comunque non emergente) l’aspetto religioso ritenuto elemento
frenante nel processo politico di modernizzazione e di nazionalizzazione. Agli
inizi del XX secolo, le popolazioni musulmane sono diffusamente considerate, in
Occidente, all’interno di un mitico immaginario collettivo creato da un fenomeno
cultuale e politico che era l’orientalismo. L’impero ottomano con i suoi fasti,
i suoi caffè, la sua musica e i suoi palazzi era lo stereotipo dell’oriente.
1.2. la sfida della monoculturalità
Nel corso di
questo secolo si è visto lo sgretolamento del rapporto tra le tre grandi
religioni e le loro rispettive culture: l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam.
Le fiorenti e numerose comunità ebraiche sono quasi scomparse da molte regioni
dell’Europa, dell’Africa Settentrionale e del Medio Oriente, vittime di
persecuzioni e di emigrazioni forzate che le hanno concentrate in Israele. La
violenza nazista che sta all’origine di questa dinamica e che ne ha accompagnato
lo sviluppo con la spoliazione della terra e dei diritti dei Palestinesi ha
creato un’inimicizia tra ebrei e cristiani, tra ebrei e musulmani.
Dopo la seconda
guerra mondiale le comunità cristiane del Medio Oriente hanno cominciato a
subire un declino numerico che minaccia di provocarne l’estinzione nel giro di
qualche decennio.
L’antica presenza
musulmana in Europa aveva perduto ogni funzione attiva di dialogo e di scambio
culturale. Emarginate nei Balcani, escluse da ogni significativo circuito
economico, letterario o scientifico, le comunità musulmane residenti nell’Europa
Meridionale erano praticamente cadute nell’oblio finché non ne sono state tratte
dalle tragiche vicende della guerra nella ex-Jugoslavia.
Ma già agli inizi
del XIX secolo molti italiani si trovavano disseminati in piccole o consistenti
colonie di immigrati in tutta la fascia costiera mediterranea. Particolarmente
consistente è il numero di Italiani in Egitto e in Turchia, costretti
all’emigrazione soprattutto per motivi politici. Nella seconda metà del XVIII
secolo diversi italiani diventano figure di spicco nella vita pubblica e
culturale egiziana e fino al 1861 l’italiano era una delle lingue ufficialmente
in uso nelle poste egiziane. Nel 1822 andava alle stampe il primo dizionario
italo-arabo e nel 1845 il primo giornale in lingua italiana in Egitto, Lo
Spettatore Egiziano, seguito nel 1876 da Il Messaggero Egiziano e nel
1892 da L’Imparziale. Nel 1930 questi ultimi due giornali si fonderanno
ne Il Giornale d’Oriente. Se c’era più di un giornale era segno che
c’erano lettori. Dai 6.000 del 1820 gli emigrati italiani passarono ai 40.000
del censimento egiziano del 1917.
Diversa, anche se
numericamente rilevante, era l’emigrazione italiana in Tunisia dove non
spiccavano, come in Egitto o in Turchia, figure di italiani di primo piano nella
cultura o nella vita ufficiale di quella nazione. Nel censimento del 1907 gli
italiani erano 81.156 (più del doppio dei francesi), ma già nel 1919, secondo i
registri della direzione della sicurezza di Tunisi, saranno ben 143.000 (di cui
più del 60% siciliani!). Essi avevano diversi giornali in lingua italiana. Tale
emigrazione (con tutti i legami e gli interessi commerciali, politici e
culturali ad essa connessi) crea un tessuto di rapporti e d’interessi e fa da
veicolo e da contatto tra l’Italia e le “sponde musulmane del Mediterraneo”. Se
in diverse nazioni delle sponde mediterranee dell’Africa e del Medio Oriente vi
erano scuole italiane, ciò testimonia un numero a lunga residenza in quelle
regioni.
Non bisogna
dimenticare neppure che nel 1938 le quatto province costiere libiche vennero
incorporate nel territorio dello stato italiano o che nel 1946 i dipartimenti
algerini erano in tutto assimilati a quelli metropolitani francesi.
Ciò ha prodotto
flussi di gente, di idee, di “immagini dell’altra sponda” e di reti commerciali;
ha instaurato rapporti di convivenza che hanno avviato il processo immigratorio
dagli anni cinquanta.
1.3. la sfida alla multiculturalità
Le generazioni
vissute in questo secolo, però, sono anche eredi di una conquista culturale: che
la criticità, il dissenso e la diversità non sono tendenze alla dissoluzione, ma
alla costruzione, non sono fattori negativi di una società, ma altamente
positivi.
La sfida della
società odierna è la «multiculturalità», già realtà e che le società europee non
possono disconoscere.
L’islam fa parte
di questa sfida. Sfida intesa nell’accezione di opportunità. Il passato ci ha
lasciato in eredità un confronto tra le due religione il cui obiettivo è
l’esclusione dell’altro, la dimostrazione e la convinzione che l’altro è «altro»
da noi! Più da buoni discepoli di Aristotele che da credenti nell’unico Dio
misericordioso, abbiamo appreso che un’affermazione vera implica
inequivocabilmente che il suo contrario sia falso, senza approfondire che due
affermazioni diverse possono essere parti complementari della stessa verità. Il
passato ci ha lasciato in eredità due blocchi: il blocco di coloro che
considerano i non musulmani «infedeli» ed il blocco dei cristiani che, in forme
diverse, affermano che «al di fuori della Chiesa non c’è salvezza». Quello che
oggi possiamo costatare è che l’elaborazione teologica degli uni e degli altri,
nell’ambito del rispettivo sistema dottrinale, ha prodotto un sistema di mutua
esclusione e l’apologia e la polemica hanno determinato fino ai nostri giorni i
rapporti tra cristianesimo e islam.
Proiettata nel
lungo periodo, la nuova presenza musulmana in Europa costituisce l’opportunità
più rilevante e concreta per riaprire il discorso di connivenza interreligiosa
ed interculturale che minacciava di chiudersi.
2. L’alterità
confessionale: l’infedele
L’islam non si
considera, nei confronti delle religioni monoteiste precedenti, come una
religione nuova di cui Muhammad, in un particolare contesto sociale ed in un
determinato periodo storico è il fondatore; ma si considera come quella
religione unica, vera, eterna ed universale nata come rapporto tra Dio ed ogni
cosa creata fin dal momento stesso della creazione e di cui il Corano è la
rivelazione ultima e perfetta. Questo implica il riconoscimento delle
rivelazioni che hanno preceduto il Corano attestate nei libri sacri degli
ebrei e dei cristiani, snodatesi come la catena di una comune tradizione.
Muhammad stesso, nei suoi rapporti con ebrei e cristiani, ha compreso le tre
confessioni sotto questa dimensione unica e unificante. Ebrei e cristiani,
tuttavia, sarebbero stati incapaci di salvaguardare fedelmente la rivelazione
divina che avevano ricevuto (e per cui si era resa necessaria un’ultima e
definitiva rivelazione: il Corano).
Il Corano cita 18
volte la Torah e 12 volte il Vangelo[1].
Di tutte queste citazioni (tra cui sono famose 3,84; 6,154-157) presentiamo un
brano dalla sura della mensa:
«In Verità noi
abbiamo rivelato la Torah, che contiene retta vita e luce, con la quale
giudicavano i profeti tutti dati da Dio fra i giudei, con i maestri e i dottori
con il libro di Dio, di cui era stata loro affidata la custodia e di cui erano
testimoni. Non temete dunque questa gente, ma temete Me e non vendete i miei
Segni [= versetti
del Corano] a vil prezzo! Coloro che non giudicano con la Rivelazione di Dio,
son quelli i Negatori. [...] E coloro che non giudicano con la Rivelazione di
Dio sono gli iniqui. E facemmo seguire loro Gesù, figlio di Maria, a conferma
della Torah rivelata prima di esso, retta guida e ammonimento ai timorati di
Dio. Giudichi dunque la gente del Vangelo
[= i cristiani]
secondo quel che Dio ha rivelato che coloro che non giudicano secondo la
Rivelazione di Dio sono perversi. E a te abbiamo rivelato il libro secondo
verità a conferma delle scritture rivelate prima e a loro protezione» (5,
44-48).
L'islam,
accordando ad ebrei e cristiani una certa partecipazione alla verità, mantiene
una tolleranza di principio nei loro confronti, finché essi non impediscono ai
musulmani di mettere in pratica i precetti dell'islam e di vivere la propria
fede. Il riconoscimento dei diritti degli ebrei e dei cristiani è fondato sulla
comune fede in un Dio unico come lo stesso Corano afferma: «Noi crediamo in
quello che è stato rivelato a noi e in quello che è stato rivelato a voi, e il
nostro e il vostro dio non sono che un Dio solo e a Lui noi tutti ci diamo
(=siamo muslim)» (XXIX,46). Nel corso della storia questo riconoscimento ha
permesso in certi periodi dei rapporti culturali molto fecondi. Ma nel Corano
sussiste anche un’altra tendenza secondo la quale ebrei e cristiani sono in mala
fede in molte cose; per questo sono chiamati anche «gente maledetta» e contro di
essi si deve dichiarare guerra (IX,20-30). Così come nel Corano questo doppio
atteggiamento lo si riscontra anche nel rapporto dei musulmani con ebrei e
cristiani e con le loro Sacre Scritture, nella ferma sincera convinzione di
essere i soli veri fedeli.
L’islam è una
religione in cui la fede si manifesta con la sottomissione attiva e volontaria
della creatura al Dio misericordioso che l’ha creata. Tale sottomissione si
esprime nell’obbedienza alla sua parola rivelata: il Corano, l’unica mediazione
possibile tra la creatura ed il suo creatore. L’islam pertanto non può mai
essere una pratica privata dell’individuo di fronte a Dio, ma sempre anche un
fatto della vita pubblica, della società e dello stato. La parola rivelata è
pertanto legge eterna, santa e divina che deve trovare applicazione nel mondo
attraverso una comunità di credenti: solo così l’islam può essere religione:
religione basata sulla legge divina[2].
Il musulmano è
profondamente convinto di conoscere la verità di Dio, cosa che gli dà una grande
certezza nelle sue affermazioni e, nella sua estrema ed assoluta fiducia nel
Corano, non si pone domande su ciò che crede.
Sicura della
verità, la comunità musulmana si sente investita del mandato di diffondere la
rivelazione di Dio e di far prendere coscienza ad ogni donna e ad ogni uomo
della propria «sottomissione» a Dio. L’islam delle origini non conosceva l’idea,
già antica presso i cristiani, di una missione organizzata per convertire alla
“vera fede”. Questo non impedisce però che islam sia, come il cristianesimo,
una religione missionaria, perché ogni musulmano è tenuto a rendere
testimonianza a Dio ed alla sua rivelazione. In passato ciò è avvenuto spesso
in forma violenta. Alcuni piccoli centri musulmani cominciarono tempo fa a
formare dei «missionari» col preciso scopo di guadagnare nuovi membri alla umma
musulmana. A questo oggi sono interessati anche organizzazioni musulmane
internazionali sostenute da varie organizzazioni religiose, politiche o statali
di paesi musulmani. Non bisogna nascondere il fatto che dietro una moschea
potrebbe esserci, come sponsor politico, il governo di una data nazione
musulmana. Capita infatti che nelle grandi città europee sorgano diverse moschee
(talvolta in aperto conflitto tra loro) anche a seconda delle tendenze
politico-religiose.
Riguardo al
dialogo teologico sulle Scritture, bisogna partire dalla constatazione di alcune
differenze che vi sono tra il posto che occupa la Bibbia in seno al
cristianesimo e quello che occupa il Corano in seno all’islam. A questo però
bisogna aggiungere che, quando in ambito musulmano si parla delle Sacre
Scritture rivelate agli ebrei e ai cristiani, non s’intende la Bibbia nella sua
stesura attuale, ma i testi biblici originali, ormai perduti per sempre!
Ebrei e cristiani
sarebbero stati incapaci di salvaguardare fedelmente ed integralmente la
rivelazione di Dio loro affidata. Prova di ciò è per i musulmani, ad esempio,
che anziché un Vangelo i cristiani ne hanno addirittura quattro e che oltre
l’Evangelo (annunziato a Gesù Cristo) i cristiani riconoscono altri libri, tra
cui le lettere di un uomo (Paolo di Tarso) che, a loro avviso, ha manipolato la
rivelazione di Dio con l’aggiunta di dottrine e di dogmi quali l’incarnazione,
la redenzione per mezzo della morte e della resurrezione di Cristo, la trinità
ecc.. La Bibbia pertanto non avrebbe alcun carattere originario della
rivelazione divina, ridotta a semplice opera umana. Il Corano chiama da un lato
ebrei e cristiani a vivere secondo le scritture loro affidate e, a motivo
dell’unità delle Scritture, li chiama d’altro lato a sottomettersi al Corano.
Nel dialogo
islamo-cristiano il punto da chiarire è la diversità della comprensione biblica
e della comprensione coranica riguardo alla rivelazione. Il punto centrale è
che Bibbia e Corano non sono sullo stesso piano teologico, perché la parola di
Dio non è la Bibbia, ma Gesù Cristo (Giovanni 1,1.14). La Bibbia raccoglie la
testimonianza della rivelazione e dell’opera di Dio nella storia (Luca 1,1-4;
1Giovanni 1,1-4; Atti 8,25; ecc.). Mentre il Corano è la parola di Dio, libro
divino in ogni pagina, in ogni parola, in ogni lettera. Le rivelazioni coraniche
quindi che hanno un riscontro nella Bibbia (quando si parla dei patriarchi, dei
profeti o di Gesù), non sarebbero conoscenze che aveva Muhammad attraverso i
contatti con ebrei e cristiani, ma parole procedute direttamente da Dio secondo
un archetipo celeste chiamato «la Madre del Libro» (XLIII,1-4).
Ciò mette in
difficoltà i cristiani quando questi trovano una conoscenza biblica
approssimata, nel Corano, con aggiunte di tradizioni rabbiniche e di tradizioni
evangeliche apocrife, ma soprattutto l'attestazione coranica del rifiuto della
morte di Cristo e della sua sostituzione con un sosia (IV,156ss); affermazione
che tocca il cuore della fede cristiana. A questo punto il problema del dialogo
è che i musulmani, nei confronti della fede cristiana, credono solo ciò che il
Corano, norma decisiva della fede, afferma di essa.
Il nodo è proprio
questa «norma decisiva della fede» che è comune a cristiani e musulmani. Questi
infatti non possono accettare che la norma della fede si trovi nella rivelazione
coranica, e gli altri non possono accettare che tale norma si trovi in Gesù
Cristo. Bisogna dunque avere coscienza che la questione della verità e della
fedeltà sia il nodo essenziale della tensione tra le comunità musulmane e quelle
cristiane: questa tensione e non altre legate a contingenti situazioni politiche
che oggi riproiettano l'islam dei nostri pregiudizi e delle nostre paure. Questa
stessa tensione non può avere, a mio avviso, un carattere assoluto, ma deve
essere anch’essa inquadrata nel carattere provvisorio della storia e
dell'esperienza umana. Senza imboccare la strada dei cedimenti o dei
sincretismi, questa tensione deve essere vissuta come una esortazione permanente
all'umiltà ed al pentimento, «perché ora vediamo come in uno specchio, in modo
oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia» (1Corinti 13,12) afferma Paolo
parlando della conoscenza umana di Dio e della verità.
Oggi la maggior
parte dei cristiani si sente lontana dai lunghi dibattiti che travagliarono la
chiesa antica per la formulazione dei più importanti dogmi cristologici; eppure
oggi la cristianità si rivolge a Dio con parole e con formule teologiche che
risalgono a quell’epoca e in quell’area del mondo di allora, la regione del
bacino orientale del mediterraneo, dove la chiesa cristiana era caratterizzata
da conflitti teologici e dagli scismi delle chiese orientali; area dove l'islam
fece i suoi primi passi. Se Muhammad prese conoscenza della fede cristiana,
questa gli fu testimoniata da una cristianità divisa sulla formulazione
teologica della divinità di Cristo.
La chiesa
siro-persiana (oggi nota come Chiesa Assira d’Oriente), separata dalla Chiesa
Ortodossa del patriarcato di Costantinopoli, fu quella che forse più di tutte le
altre chiese cristiane ebbe maggiori contatti con l'islam delle origini e nella
sua prima fase di sviluppo. Riguardo alla natura di Cristo, questa chiesa
nestoriana, distingueva nettamente tra la natura divina e quella umana. Quanto
alla natura umana di Gesù c’è da dire che la sua concezione si avvicinava molto
alla concezione cristologica del Corano. Alcuni studiosi avanzano l'ipotesi che
la cristologia dell’antica chiesa giudeo-cristiana, la comunità cristiana di
origine ebraica quasi scomparsa dopo la caduta di Gerusalemme nel 70 d.C.,
riapparirebbe con Muhammad nell’islam.
Partendo da un
monoteismo radicale, la concezione coranica su Gesù è quella di un semplice
profeta e inviato: «Il Cristo Gesù, figlio di Maria, non è che un Messaggero di
Dio, il Suo Verbo che egli depose in Maria, uno Spirito da Lui esalato» (IV,
171b). Dono particolare concesso a Gesù è quello di fare dei miracoli; in
qualche testo sembra che Gli si riconosca una certa partecipazione alla potenza
creatrice di Dio (III, 43-49). Egli però rimane sempre un semplice strumento
umano nelle mani di Dio che agisce secondo il Suo beneplacito. Lo stesso
versetto che chiamava Gesù «Verbo» e «Spirito», prosegue infatti negando la
trinità: «rendete dunque in Dio e nei suoi Messaggeri e non dite: “Tre!” Basta!
E sarà meglio per voi! Perché Dio è un Dio solo, troppo glorioso e altro per
avere un figlio! A Lui appartiene tutto ciò ch'è nei cieli e quel ch'è sulla
terra, Lui solo basta a proteggerci!» (4,171c). Questa posizione intransigente
dell'islam non permette di convincere i musulmani che la fede in Gesù Cristo
come figlio di Dio non mette in pericolo la fede in un solo ed unico Dio.
3. L’alterità
intrareligiosa: l’eretico
Superata la
questione sui termini di «ortodossia» ed «eterodossia», in quanto ritengo siano
relativi e di parte i criteri che stabiliscono dove sia l'ortodossia e dove
l'eterodossia, chiameremo «ortodossa» quella parte della umma musulmana
largamente maggioritaria (90%) e che si autodenomina ortodossa. Premetto subito
però che quando nell'islam si parla di «sette», s’intende parlare solo di quei
gruppi che non solo hanno delle peculiarità dottrinali, ma che soprattutto si
sono autoesclusi dalla comunione spirituale e religiosa degli altri musulmani
ritenendosi «il vero islam». In quanto alla dottrina, invece, il primo
fondamento su cui poggia l'islam è la confessione di fede che recita: «Non c'è
dio se non Iddio e Muhammad è il suo inviato»; non è musulmano o è eretico,
nell'islam, solo chi non accetta una delle due parti di questa confessione di
fede (o quella sull'unicità di Dio o quella sul riconoscimento di Muhammad come
inviato divino).
3.1. l’islam kharigita
La prima
divisione consistente all’interno della comunità musulmana avvenne quando nel
656 d.C. ‘Ali fu eletto califfo dell’islam. Ritenendo di essere il più
qualificato, in quanto membro della famiglia del profeta, per succedergli alla
guida , ‘Ali aveva assistito frustrato all’elezione di ben tre califfi prima che
la scelta cadesse su di lui. La sua elezione però avviene in un clima
estremamente sfavorevole. Mu’âwiya, governatore della Siria, e capo del potente
clan omayyade, rifiuta di riconoscere ‘Ali come califfo. La legittimità
califfale di ‘Ali fu affidata ad un arbitrato. Una parte dei partigiani di ‘Ali,
non accettando questa soluzione, abbandonò l’accampamento uscendo dal patto di
sudditanza al califfo e dalla comunione con la umma; vennero chiamati
kharigiti (dal verbo arabo che significa «uscire fuori»): fu il primo scisma
dell’islam. L’esito dell’arbitrato si risolse a sfavore di ‘Ali che non accettò
il responso e prese le armi contro il partito avverso. La morte del quarto
califfo nel 661 non risolve comunque la questione della legittimità del
califfato, la umma infatti si suddivide ulteriormente. La maggior parte di essa
si riconcilia con Mu’âwiya dichiarandosi fedele alla tradizione del profeta, la
Sunna, e alla comunità: i sunniti. Una minoranza invece rimane fedele alla
memoria ed alla legittimità califfale di ‘Ali e della dinastia alide: costoro
sono i «partigiani» (sciiti) di ‘Ali.
Il kharigismo
ebbe vita soprattutto nei primi secoli dell’islam come movimento in continua
rivolta contro il califfo sunnita. Il gruppo kharigita sopravvissuto fino ai
nostri giorni è quello ibadita, dal nome del loro presunto fondatore,
‘Abdullâh ibn Ibad, che si sarebbe staccato dai gruppi più estremisti già nel
primo secolo dell’egira. Sono circa un milione e sono sparsi in vari gruppi in
Algeria, Tunisia, Libia, nello Oman e nello Zanzibar, mantengono ancora un certo
rigorismo morale e, per il culto, esigono una stretta osservanza della purità
rituale.
3.2. l’islam sciita
Di dimensione
molto più vasta, sia dal punto di vista numerico che teologico, è il secondo
scisma dell'islam: la sci’a, «il partito» (di ‘Ali), oggi il 9% dei
musulmani. Attualmente la teologia sciita si differenzia da quella sunnita in
tre punti: la dottrina dell’imamato, il valore redentivo dato alla sofferenza ed
al martirio, l'adozione della teologia mutazilita nell'interpretazione del
Corano.
La fondamentale
diversità tra sunnismo e sciismo è il contrasto sulla direzione spirituale (imâma)
o la direzione politica (hilâfa) della comunità musulmana; se cioè debba
esserci un imâm o un califfo a capo della umma; se debba esserci un’autorità
riconosciuta dalla comunità democraticamente per elezione, oppure se debba
esserci un’autorità conferita direttamente da Dio e trasmessa ad personam
in una successione ininterrotta a partire da Muhammad. Questa differenza
fondamentale parte dall’accettazione o dal rifiuto della mediazione tra gli
uomini e Dio, accolta dagli sciiti, rifiutata dai sunniti. E’ questa una
differenza molto simile a quella tra cattolicesimo (che accoglie tale
mediazione) ed il protestantesimo (che la rifiuta). Non a caso nella sci'a,
a differenza del sunnismo, c’è un clero docente, è molto sviluppato il culto
della persona, una sorta di culto dei santi e la riproduzione delle immagini di
questi. Tuttavia non è possibile comprendere fino in fondo questa differenza se
non si tiene conto dell’elemento esoterico portato avanti dall’elaborazione
teologica sciita con la dottrina dell’imamato.
Come per l’islam
sunnita, anche lo sciismo ritiene chiuso il ciclo del profetismo con Muhammad
«Sigillo dei Profeti» (Khâtim al-nabiyâ’), dopo Adamo, Noè, Abramo, Mosè
e Gesù, la missione dei quali era quella di portare una nuova legge (sciâri’at)
all'umanità. Diversamente dal sunnismo, però, per lo sciismo la fine del ciclo
della profezia (nubuww’at) ne apre uno nuovo: il ciclo della guida
iniziatica (walâyat). Come il profeta è il fulcro del primo ciclo, così
l’imâm lo è per il secondo; e così alla ricerca dottrinale della verità (sciâri’at)
del primo ciclo succede la ricerca spirituale della verità (haqîqat),
all'essoterismo (zâhir) succede l'esoterismo (bâtin), all'esegesi
letterale (tafsîr) succede l'esegesi spirituale (ta’wîl). Il primo
ed il secondo ciclo non si completano l’un l’altro né si escludono: essi sono,
per lo sciismo, quasi come due periodi speculari che si riflettono l'uno
nell'altro. In questa concezione non trova posto il califfato (né quello
elettivo né quello dinastico) così come è inteso nel sunnismo: i primi tre
califfi hanno usurpato il posto ad 'Ali, col quale inizia il ciclo della guida
iniziatica, ed al quale succedono gli imâm.
Verso la fine del
X sec. dell'era cristiana la gnosi, la filosofia greca, soprattutto il
neoplatonismo, cominciano ad influenzare il pensiero musulmano; la figura dell'imâm
acquista a poco a poco un carattere sovrumano in virtù di qualità divine di cui
era dotato, secondo l’antica filosofia gnostica della Luce, per cui nell'imâm
s’incarna la luce divina discesa dai tempi di Adamo attraverso successive
generazioni di profeti. Per lo sciismo ogni imâm, a turno, è stato «Custode del
Libro» (Qayyim al-Qur’ân), colui che esplicita e trasmette ai suoi
discepoli il senso nascosto delle rivelazioni: questo insegnamento, oltre ad
essere il patrimonio teologico dello sciismo è anche la fonte del suo esoterismo.
Gradatamente la
dottrina dell’imamato andò cristallizzandosi in tre posizioni principali, e
quindi in tre principali correnti sciite, che si differenziano in base al
diverso valore sacrale che ognuna dà alla figura dell’imâm e alla successione
del numero di imâm prima dell'inizio del ciclo di occultazione. Gli studiosi
distinguono - in riferimento alle differenze teologiche col sunnismo - tre
categorie di sci'a: una moderata (che considera l'imâm come un uomo «rettamente
guidato»), una estrema (che attribuisce un carattere divino all'imâm) e una
media (che lo considera «intriso di luce»). La divisione tra queste tre
principali frange dello sciismo si compie per la prima volta al momento della
morte del quarto imâm quando la frangia che sarà detta zaydita riconoscerà Zayd
ibn 'Ali come imâm legittimo, mentre il resto della sci’a riconosce Muhammad
al-Baqir; la seconda volta la separazione avviene tra la frangia imamita
duodecimana e quella ismailita settimana quando, alla morte del sesto imâm la
prima riconosce come legittimo imâm Musa al-Kazim, il primogenito dell’imâm
precedente, mentre la seconda riconosce tale legittimità in Ismail, un altro dei
suoi figli.
3.3. la sci’a zaydita
Il gruppo più
consistente di quella che è definita la sci’a moderata è quello degli zayditi,
dal nome di Zayd ibn ‘Ali, un discendente di ‘Ali che tentò di togliere il
califfato agli omayyadi. Egli fu proclamato di suoi seguaci 5° imâm successore
legittimo di ‘Ali invece di Muhammad al-Baqir, che fu riconosciuto imâm dagli
altri sciiti. Con Zayd l’alidismo diventa fatimide: la legittimità della
successione califfale spetta solo, cioè, alla discendenza dei figli di ‘Ali e
della moglie Fatima (figlia del Profeta). Gli zayditi si distinguono dall'islam
sunnita, col quale condividono la scelta per elezione del califfo (che loro
chiamano comunque imâm), solo per la questione della legittimità califfale
della discendenza fatimide. Pur mantenendo la dottrina dell’imamato essi, però,
non accettano la dottrina dell’occultazione e del ritorno dell'imâm. Per gli
zayditi l’imâm, a cui non riconoscono alcuna qualità soprannaturale, altro non
è se non la guida spirituale e quindi per questo anche temporale della umma.
3.4. La sci’a imamita duodecimana
La sci’a media è
di gran lunga quella che ha un maggior numero di membri; 50 milioni (il 9% della
umma islamica), per lo più in Iran (dove è la religione ufficiale), in Libano,
in alcune zone meridionali dell’Asia Centrale, in Iraq, in India e in Pakistan.
La sci’a media si identifica con l’imamismo duodecimano, secondo cui l’imâm
non è un semplice «erede Spirituale» del Profeta, ma è investito di una funzione
che potremmo definire «sacerdotale», medianica tra la divinità ed il popolo dei
fedeli. Lo sciismo duodecimano accetta la successione di dodici imâm, l'ultimo
dei quali si è occultato nel 874 ed è chiamato il Mahadi, l’atteso, in
quanto si aspetta il suo ritorno. Questi dà inizio alla storia segreta del
dodicesimo imâm ed è l’anima, la coscienza sciita da dieci secoli e la chiave
interpretativa della sua storia. Comunemente chiamato «Sâhib al-zamân» (=
il signore di questo tempo), invisibile ai sensi ma presente nel cuore dei
fedeli, Muhammad al-Mahadi, il dodicesimo imâm, chiude il ciclo della guida
iniziatica, come il profeta Muhammad aveva chiuso il ciclo profetico.
Dall’occultazione del dodicesimo imâm un vicario (wakil) regge la
comunità in sua vece, ma anche il periodo dei wukala (quattro in tutto)
finisce lasciando il posto ad una oligarchia di teologi e di autorità politiche
attraverso i quali l'imâm nascosto fa conoscere la sua volontà. L'imâm
occultato, infatti, non è morto, perché altrimenti né la comunità musulmana né
il mondo stesso (secondo la teologia imamita) potrebbero sussistere, ma vive
nascosto da qualche parte fino al giorno in cui si farà riconoscere.
La dottrina
dell’imamismo presenta i suoi caratteri più estremi con l’affermazione che sulla
terra non può mai mancare una persona sacra, vicaria del Profeta, per spiegare
in ogni tempo la Verità di Dio. Otto secoli dopo la grande occultazione, Akhmad
al-Akhsari attribuì ai quattro wukala il nome di Bâb (= porta) e,
ritenendosi investito di una missione particolare per la guida spirituale
conferitagli dall’imâm, elaborò una dottrina neo-settimana (ritenuta eretica
dall’imamismo ufficiale) e riunì dei seguaci attorno a sé dando vita (intorno al
1826) al movimento degli sciaykhî.
Lo sciaykhismo si
suddivide con il secondo successore di Akhmad al-Akhsari, quando parte del
movimento riconosce Mirsâ ‘Ali Muhammad come capo nel 1844, che si proclama «la
porta» (Bâb) tra il dodicesimo imâm nascosto ed i suoi fedeli. Con questo
ramo nasce il Babismo. Le feroci repressioni che subì questo movimento
costrinsero gli aderenti ad emigrare. Il centro spirituale del babismo si spostò
così a Baghdad, Istanbul, Edirne e, infine, ad Haifa. Dal babismo in esilio si
formò il movimento universalista del Bahâ’i.
3.5. la sci’a Ismailita
Col nome di
isma’iliyya (= ismailiti: dal nome dell’imâm eponimo ritenuto successore
legittimo di Giafar as-Sadiq) è conosciuta una delle frange più estreme della
sci’a (nel senso di “più lontana” dal sunnismo), nata da un gruppo che, alla
morte dell'imâm Giafar as-Sadiq, riconobbe come legittimo settimo imâm Muhammad
ibn Isma’il, suo nipote e figlio del suo defunto primogenito Isma’il ibn Giafar.
Musa al-Kazim (secondogenito di as-Sadiq) fu invece riconoscono legittimo
settimo imâm dai duodecimani.
L’ismailismo si
ramifica in settimani (sab’iyya) e fatimidi con la morte di
Muhammad ibn Isma’il. I settimani sostenevano che il settimo imâm (da cui il
nome di settimani) fosse entrato in «nascondimento» (mastûr) e che
sarebbe tornato come mahadi alla fine del mondo. Per i Fatimidi, invece, il
periodo del mastûr degli imâm continua in una sorta di dinastia imamica
fino a Ubaidallâh al-Mahadi (874-933) riconosciuto come mahadi e che
fonda la dinastia Fatimide nel 909 che regnerà nel Maghreb, risiedendo in
Egitto, dal X al XII secolo.
Nel 1094, alla
morte dell’ottavo califfo fatimida al-Mustansir bi-llâh, il figlio Nazyr,
primogenito di questi, fu soppiantato nella successione dal fratello Musta’li.
Coloro che accettarono Musta’li furono chiamati ismailiti musta’li,
mentre coloro che riconoscevano in Nazir il legittimo successore al califfato
fatimida furono chiamati ismailiti nizari. Essi portarono in salvo il
nipote di Nazir nella fortezza di Alamût, in Iran, dove il nizarismo dà vita ad
un ismailismo esoterico, da cui nasce il gruppo dei cosiddetti assassini:
l’ismailismo riformato di Alamût. Nel 1256 la fortezza è rasa al
suolo dai mongoli e l’ultimo imâm, Ruknoddin Scià, viene assassinato. Si salva
il figlio che con i seguaci rimasti, facendosi credere una confraternita sufi,
sono sopravvissuti fino ai nostri giorni. Nel 1834 lo scià di Persia insignì
del titolo di «Agha Khan» (=principe maestro) l’imâm capo dei nizari; emigrato
in India stabilì in quella nazione la sede centrale. Attualmente Karîm Aga Kan
IV è il capo spirituale di qualche centinaio di migliaia di seguaci, la maggior
parte dei quali risiede ancora oggi nei centri iraniani e nella zona che
comprende gli altipiani dell’Asia Centrale, del Pakistan e l’India. Il nome con
cui oggi sono comunemente chiamati è khoja.
A partire
dall’assassinio del califfo al-Amir nel 1130, i musta’li ritengono in «mastûr»
il loro ultimo imâm ‘Abu-l-Qâsim at-Tayyb. Da allora essi hanno, come guida
spirituale, un dâ’j (o gran sacerdote), il rappresentante dell’imâm
invisibile. Trasferitisi prima nello Yemen, dal XVI secolo anche i musta’li
hanno portato in India la loro sede religiosa, dove contano circa 600.000
membri, comunemente noti col nome di bohora. In questo secolo i bohra si
sono suddivisi in due gruppi: i dawudi e i suleymani.
3.6. le sette ismailite
L’origine di
quella che, al pari dei drusi, è considerata da sunniti e sciiti una «setta» al
di fuori dell’islam, è tuttora oggetto di discussione. Prendono il nome da uno
dei loro capi, Muhammad ibn Nusayr (m.880) e probabilmente affondano le loro
origini nei movimenti gnostici cristiani preislamici, ma confluirono nell’imamismo
duodecimano prima e spostandosi successivamente nel movimento ismailita. Erano
comunque legati alla frangia siriana dei carmati, coi quali venivano
spesso associati. La loro dottrina non è per nulla accostabile o paragonabile
allo sciismo, ma si evolve in modo autonomo al suo interno sviluppando dall’ismailismo,
dallo gnosticismo e dal manicheismo i punti originali della sua teologia, in cui
gli imâm sono fortemente intrisi della presenza divina. Preesistenti come idee -
secondo la teologia ismailita - nella dottrina alawita, essi però s’incarnano
nel mondo reale in una serie di cicli e periodi per compierne il riscatto
finale.
Il sesto califfo
fatimida al-Hakim, proclamatosi Dio, fu appoggiato da alcuni seguaci,
capeggiati da un certo Hamza e un certo Darazi. Da quest’ultimo costoro furono
chiamati drusi, che attualmente sono circa 200.000 e vivono in quasi
tutte le nazioni del Medio Oriente. Caratteristica di questo gruppo è l'esoterismo
delle dottrine, note solo agli alti iniziati. Sia i drusi che altri gruppi,
definiti collettivamente ‘Ali-hilahi, come gli alawiti, gli
Ahl-i Haqq e gli Yazîdi, benché abbiano una matrice ismailita, sia
dal punto di vista dottrinale che storico, difficilmente possono essere
considerati musulmani, anche se i loro aderenti si professano tali. Le loro
dottrine sono troppo particolari per far parte della umma musulmana. Essi sono
fortemente intrisi di elementi gnostici. Non a caso infatti molti preferiscono
definirli «sette».
Ahl-i Haqq
(letteralmente = gente della verità) è uno degli appellativi per definire
una setta ismailita esoterica che non possiede un suo testo sacro e con dottrine
gnostico-manichee. Essi contano sette manifestazioni divine consecutive nonché,
di seguito a ciascuna di queste, cinque epifanie di ipostasi divine (chiamati
angeli o ministri) emanate dal divino e che formano, di volta in volta un’unica
entità. Queste sono dei cicli verso la maturità estrema. Nel secondo ciclo
prevalgono i rappresentanti islamici, ma il centro della loro dottrina prende
vita dal quarto ciclo, quello del sultano Sukhaq, presumibilmente il fondatore
della setta. Essi credono alla trasmigrazione delle anime e sono vegetariani.
Yazîdi
sono i membri di una etno-setta esoterica che vive tra i kurdi dell’Iraq del
Nord, soprattutto nella regione a Nord di Mossul, a Shaykhan, dove si trova il
loro centro di culto con la tomba del loro santo nazionale, lo sceikh ‘Adî.
Suddivisi rigidamente in tribù e famiglie, sono organizzati in cinque
circoscrizioni. A causa del loro esoterismo, basato su un mito di discendenza, è
proibita qualsiasi mescolanza al di fuori della loro comunità, pena la
scomunica. A questa esclusività esterna ne segue un’altra interna tra laici e
religiosi a loro volta suddivisi in caste rigorosamente endogamiche. I sunniti
non li riconoscono come musulmani soprattutto a causa della venerazione per
Yazîd ibn Mu'awiya, probabilmente il loro eponimo, reo di aver causato la
morte dei figli i ‘Ali, Hassan e Hussyn, ma forse perché stereotipo del
malvagio, dell’essere satanico, è simboleggiato dal malak tâ’ûs,
l’angelo-pavone. Dietro l’immagine del pavone si nasconde l’angelo decaduto (il
diavolo), ma il suo pentimento e la grazia di Dio spezzano la sovranità del
male, da cui la via della rinascita, interpretata come via di purificazione che
conduce alla nobiltà dell’anima e al paradiso. Il malak tâ’ûs diventa
così il vero esecutore della volontà divina della salvezza, il creatore ed il
sostenitore dell’universo. Tutto questo è narrato dai miti yazidi in cui sette
angeli, insieme al malak tâ’ûs, sono gli artefici della creazione. Anche
nello yazidismo, come per gli ahl-i Haqq vi sono delle manifestazioni
cicliche della divinità (Muhammad, Gesù, ecc.) come garanti secolari della
salvezza.
3.7. l’islam sunnita
L’islam sunnita
o ortodosso è quello che con 800 milioni di fedeli raccoglie il 90% di tutta
la umma musulmana. Il sunnismo ama definirsi ahl as-sunna wa ‘l-giama’ (=
gente della tradizione e della comunità), dove più che il termine Sunna (la
raccolta delle tradizioni del profeta), quello che li specifica è il termine
comunità, intendendo con esso la dottrina secondo la quale l’interpretazione
comunitaria del Corano, dopo la morte del Profeta, non è più competenza di una
persona (come nell’imâmismo duodecimano e nell’ismailismo), ma della intera umma
che la esprime con lo studio ed il consenso dei suoi teologi. Gli sciiti
potrebbero benissimo essere definiti ahl as-sunna, in quanto anch’essi
hanno la Sunna sulla quale basano anzi molte delle loro dottrine, ma non possono
essere definiti ahl al-giama’, perché centrale della loro teologia è la
specifica competenza dell'imâm come unico interprete del Corano.
Le fonti della
teologia e del diritto nell'islam sono: il Corano (spiegato e commentato
dal tafsìr, l'esegesi), la Sunna (la raccolta delle tradizioni
sui detti e i fatti del Profeta) e la ijmà’ (il consenso dei dottori
della fede).
La ijmâ’
(= consenso), terza fonte dell’islam in ordine di importanza, non è, come si
potrebbe pensare, il consenso “di popolo”, ma il consenso dei soli dotti.
All’interno del processo di sviluppo del pensiero musulmano, il consenso
richiesto è quello degli studiosi dell'interpretazione della legge, qui intesa
come applicazione concreta nella vita pubblica e privata del Corano e della
Sunna.
L’islam è una
religione basata sul rapporto di misericordia tra il creatore e le sue creature,
rapporto che si esprime nell’obbedienza alla rivelazione Coranica. La fede,
nell’islam, non è un fatto privato tra l’individuo e Dio, ma tra l’umanità e
Dio. Pertanto la fede in Dio la si deve esprimere come atto della vita pubblica,
sociale e dello stato. Avere ben chiaro su quali cardini deve essere organizzata
la società e chi in essa deve esercitare l’autorità è della massima importanza
per l’islam, perché il musulmano è parte di una comunità chiamata da Dio stesso
a ristabilire il rapporto corretto tra Dio e le sue creature.
L'elaborazione
teologica nell'islam nasce per dare una risposta a questioni pratiche e
politiche del momento; soltanto a cominciare dal secondo secolo dell’egira la
teologia comincia a diventare una scienza speculativa. Più che di scuole
teologiche sarebbe più corretto parlare di teologi, che creano delle correnti
di pensiero dando così origine alla scienza del kalàm, che potremmo tradurre con
«teologia». Precisiamo subito che il kalàm non è né la prima né la più
importante delle scienze religiose dell'islam, perché l'applicazione del Corano
(= la legge divina) e della Sunna (= l'esempio del Profeta) nella vita di tutti
i giorni è data dal fiqh, il diritto religioso musulmano. Solo il Corano,
la Sunna e il fiqh sono necessari e sufficienti a tutti i musulmani.
Se questo è
vero ed accettato come principio da tutti i musulmani, è altrettanto vero
che su certe questioni il Corano, la Sunna e il fiqh non erano
sufficienti a dare delle risposte soddisfacenti. Fin dai primi anni, sul fronte
interno della comunità, i primi scismi per la legittimità califfale, come
abbiamo visto, ponevano dei problemi teologici: il rapporto fede/opere, lo
status di un musulmano peccatore, l'origine del male, ecc.. Sul fronte esterno
alla comunità, invece, le grandi e rapide conquiste costringevano l’islam a
confrontarsi con civiltà e religioni molto elaborate che usavano sistemi
filosofici molto avanzati. In questa situazione il kalàm, la speculazione
teologica musulmana, nacque come difesa e come necessità della definizione del
dogma. Più precisamente possiamo dire, con il grande storico musulmano Ibn
Khaldûn (m. 1406), che il kalàm è la scienza che intende provare i dogmi della
fede con argomentazioni tratte dalla tradizione rivelata e con argomentazioni
razionali, per difendere la fede ortodossa contro i suoi avversari esterni (le
altre religioni) o interni (i musulmani “eretici”) e per rispondere alle domande
dei credenti.
Il pensiero
musulmano arrivato fino a noi è frutto di secoli di elaborazione
giuridico-teologica e di profondo quanto mai appassionato dibattito tra studiosi
musulmani fino a quando la giurisprudenza musulmana (con la chiusura dell'ijtihâd
nel X secolo) e la teologia musulmana (con la sintesi di al-Gazzàli nel XII
secolo) raggiunsero gli equilibri finali di ampio consenso. Fin dal suo sorgere
l’islam assunse lineamenti peculiari più o meno marcati a seconda del grado
d’influenza esercitato dalla cultura locale. Nelle città della Penisola Arabica
si era inclini a fissarsi sui modelli di devozione pratica antispeculativa delle
prime generazioni; in Siria si manifestava l’influenza ed il confronto con il
pensiero ellenistico-cristiano; nell’Iraq l'influenza proveniva da correnti
gnostiche. Se la discriminante per essere musulmano era la sola professione di
fede, quale sarebbe stato l’islam ortodosso? Sorsero così le scuole
teologico-giuridiche dell’islam sunnita e che fino ad oggi lo dividono in
quattro grandi correnti teologiche fondamentali e in quattro riti di diritto
islamico.
Le scuole
giuridiche e le scuole teologiche hanno svolto il compito della formulazione
graduale dei principi giuridici e teologici dell’islam, anche se, fattore non
trascurabile, ha giocato un ruolo importante il potere politico che, pur non
influenzando direttamente la ricerca intellettuale, ha comunque spesso favorito
il consolidamento delle tendenze dominanti.
Le scuole
giuridiche principali dell'islam sono quattro e sono quelle che l'ortodossia
sunnita ha definitivamente accolto e dalle quali ogni musulmano trae i precetti
e le norme di vita, secondo l’una o l’altra interpretazione. Esse ovviamente non
sono soltanto il risultato della complessa elaborazione dottrinale, ma anche la
sintesi del confronto tra la comune e generale legge islamica e le esigenze, la
cultura e la sensibilità intellettuale e religiosa dei diversi popoli, nei
diversi luoghi e nei diversi periodi.
a. Caratteristica
della scuola hanafita è quella di privilegiare l’uso del ragionamento
dialettico (ra’y) al ragionamento analogico (qiyàs); per questo è
ritenuta la più liberale. Attestatasi inizialmente in Iraq, si diffuse verso
oriente sotto gli abbasidi, ma raggiunse la sua maggiore diffusione sotto gli
ottomani. Oggi il rito hanifita è in vigore in molti dei territori
dell'ex-impero ottomano, nell'Asia Centrale, in Afghanistan, in India e in
Pakistan.
b. Particolarità
della scuola malikita, oltre al fatto di privilegiare i hadîth, è di aver
accolto anche l'opinione personale (isthsan) del giureconsulto come
criterio di valutazione nel giudizio. Essa è soprattutto seguita in Africa
Settentrionale, ad eccezione dell'Egitto, e in parte dell'Africa Orientale.
c. Il fondatore
della scuola sciafiita Abu ‘Abd Allah Muhammad al-Sciafi’i fu un grande
sistematore del fiqh; discepolo di Malik e di tendenze eclettiche scelse
una posizione mediana tra la libera formulazione della legge ed il
tradizionalismo. Fu in polemica contro i hanafiti privilegiando il ragionamento
analogico al ragionamento dialettico, il qiyàs al ra’y, ma la sua
polemica non risparmiò neppure i malikiti per la sua opposizione all’uso del
parere soggettivo e sostenendo la necessità di regole fisse e oggettive per
l'uso del qiyàs. La scuola ha comunque sempre privilegiato la ijma’. Oggi
essa è seguita in buona parte dell'Egitto (dove nella moschea-università di
al-Azhar dal 1870 il corpo insegnante è quasi tutto sciafiita), nel Bahrain,
nell’arcipelago malese, in Arabia Meridionale, in Africa Orientale, nel
Daghistan e in alcune zone dell'Asia Centrale.
d. Il carattere
principale della quarta scuola, detta hanbalita, è da individuare
nell’aver privilegiato il Corano e la Sunna in una lettura strettamente
letteralista, senza alcun uso del ra’y e con uso limitato del qiyàs , in
difesa della tradizione a cui si doveva ricorrere il più possibile. Fu sempre
una scuola molto radicale, contraria a qualsiasi tipo di innovazione e
intollerante nei confronti di ogni influsso esterno all’islam. E' sempre stata
una scuola poco seguita, soltanto nell’Arabia Saudita, nell’Oman e nei paesi del
Golfo Persico.
3.8. la mistica
L’islam
ortodosso, definito dal fiqh e dal kalàm, è un sistema unitario,
chiaro e coerente, ma è visto dalla grande massa dei musulmani come un modello
teorico verso cui tendere. Tutta la questione giuridica e teologica dell’islam
fu opera di un gruppo estremamente ristretto rispetto all’intera umma musulmana
che si è addentrato in questioni certamente importanti, ma che hanno allo stesso
tempo lasciato nell’indifferenza gran parte della comunità. Se il Corano fosse
stato ridotto solo a “legge” e “teologia” probabilmente l’islam non sarebbe
sopravvissuto o comunque non avrebbe dato vita ad una grande civiltà. Se ciò è
avvenuto, gran parte del merito va al movimento sufi, che ha dato un
insostituibile contributo di vitalità alla umma musulmana e che affonda le sue
radici nella ricca spiritualità dell’islam delle origini sviluppandosi con
affascinanti figure di mistici, poeti, filosofi e teologi.
Le origini del
sufismo sono oscure in quanto non nacque come movimento organizzato dalla spinta
di un fondatore (come lo è stato per le scuole giuridiche e teologiche) e con un
sistema dottrinale ben definito. Libero da ogni autorità di riferimento o da una
linea definita, il sufismo prese diverse forme e direzioni: si formarono
gruppi e comunità di tipo monastico, delle isolate personalità fortemente
mistiche che conducevano una vita da eremita, ma soprattutto plasmò a livelli
più semplici la religiosità popolare. L'origine del termine sufi sembra essere
connessa con l’uso d’ indossare indumenti di lana non tinti (=s uf). Nel primo
secolo dell’ègira appaiono le prime tracce di organizzazioni collettive sotto
forma di piccoli gruppi che si radunavano per discussioni religiose. Nello
stesso periodo sorgono i primi “conventi” (a successione di celle, come gli
eremitaggi della chiesa orientale melkita, o in grotte, come nestoriani). Gruppi
di sufi s’incontravano per recitare ad alta voce il Corano, recitazione che
assunse pian piano un vero e proprio carattere liturgico (il dhikr) fino
a diventare momento di estasi comunitaria.
Nel XII secolo
cominciarono a sorgere le famose confraternite sufi, che diedero un
importantissimo appoggio spirituale a tutta la comunità musulmana, in quel
periodo disorientata da molte calamità (la fine del califfato abbaside, le
crociate, l’invasione turca e l’invasione mongola). Il nome arabo (e persiano)
per «confraternita» è tàriqa (= via) nell’accezione di «regola». Le
confraternite sufi, tutte nell'ambito della sola ortodossia, sono esistenti ed
attive fino ai nostri giorni. Il capo della confraternita, lo sceikh (=
maestro), la cui genealogia spirituale “esoterica” si ritiene parta dal Profeta
stesso, ha autorità assoluta e gli si attribuiscono speciali doni, la conoscenza
di insegnamenti segreti e la bàraka (=benedizione), una sorta di flusso
benefico proveniente da Dio e di cui è dispensatore.
Ogni
confraternita ha una regola ed un rituale stabiliti dal fondatore; rituale che
non sostituisce mai le cinque preghiere canoniche, ma che invece completa con
forme di culto estatico. I membri delle tariqe sono di due tipi: i
residenti, che abitano nella sede della confraternita, e quelli che, dopo avervi
trascorso un periodo in cui hanno ricevuto l’istruzione, ritornano alle loro
case ed alle loro occupazioni forti della bàraka del maestro e più
osservanti nei doveri religiosi, custodi dei segreti della propria
confraternita della quale praticano le particolari devozioni, alla quale di
tanto in tanto ritornano per ritirarsi ed al cui mantenimento contribuiscono
con quote fisse. Questa breve esposizione non ci consente di addentrarci in
quello che si potrebbe tentare di dire sulle singole e più note confraternite,
delle quali si possono solo cogliere gli strati più in superficie e meramente
descrittivi, vigendo il vecchio detto (quando ci si imbatte in gruppi esoterici)
che afferma: «chi sa non parla e chi parla non sa». Possiamo però dire che
l’islam dell’immigrazione europea sembra che si stia conformando con
l’appartenenza alle tariqe, le quali hanno il vantaggio di far sentire
più concretamente e più a livello personale l’appartenenza e la pratica
dell’islam in società che gettano nell’emarginazione e nell’anonimato gli
immigrati musulmani, soprattutto quelli socialmente e culturalmente più deboli.
3.9. le sette sunnite
Il millenarismo è
stato presente nello sciismo e nell’ismailismo fin dal loro sorgere, ma solo nel
XIX secolo esso è apparso anche nel sunnismo con il movimento degli
ahmandiyya. Esso nasce per opera di Ghulâm Ahmad che nell’ultimo decennio
del secolo scorso affermava di aver ricevuto rivelazioni divine. Attorno a lui
si raccolgono dei seguaci che ritengono Ghulâm Ahmad il mahadi, come egli
stesso si riteneva, il messia, krishna ridisceso, Gesù ritornato, Muhammad
redivivo. Alla morte di Ghulâm Ahmad il movimento si divide in due, uno con sede
a Lahore e l’altro, largamente maggioritaria, rimase a Qadiyan, dove il
movimento era sorto e dove continuava sotto la guida spirituale del figlio di
Ghulâm Ahmad. Quando si parla degli Ahmandiyya oggi generalmente si intende
questo gruppo, diffuso in India, Pakistan Africa Occidentale e nel sud-est
asiatico nonché in Europa ed America. Dal 1947 la sede ufficiale del movimento,
che oggi conta circa un milione di membri, si trova a Rabwan in Pakistan.
4. L’alterità etnica:
l’occidentale
E' comune ormai
chiamare «musulmano» o «marocchino», qualunque immigrato provenga dal Nordafrica
o dal Medio Oriente, prova questa di un erronea idea di un universo umano
socialmente monolitico. Il semplicismo del linguaggio corrente comprime e
occulta ogni specificità confinando ogni cosa sotto l’espressione «mondo
islamico». Ma il cosiddetto “mondo islamico” è una categoria largamente
ideologica e, come la categoria che racchiude l'«Occidente cristiano» o il
«mondo cristiano» affatto monolitico e compatto, è anch’essa estremamente
frammentata, policentrica, con notevoli differenze teologiche, etno-culturali,
socio-economiche e politico istituzionali.
Se dobbiamo
parlare di mondi contrapposti non dobbiamo allora contrapporre le categorie
«mondo islamico» / «mondo cristiano», ma eventualmente «mondo orientale» /
«mondo occidentale». Perché negli stereotipi collettivi, per un mediorientale,
l’altro non è «il cristiano», perché in questa categoria rientrerebbe il suo
vicino di casa melchita o maronita che non è «molto diverso» da lui. Lo
stereotipo è invece l’italiano, il francese, l’americano... Esattamente come per
noi che consideriamo erroneamente tutti i mediorientali «arabi», come per dire
«musulmani».
L’islam e la
politica è un tema sempre più di attualità. E' proprio a causa dei grandi
avvenimenti politici in cui sono a centro le nazioni e i popoli musulmani,
infatti, che l’occidente comincia ad occuparsi lentamente (e confusamente)
dell’islam. Anche se per gli stessi musulmani religione e politica sono un tutt’uno,
a mio avviso però l’occidente, nella sua analisi politica dell'area musulmana,
sottolinea troppo il fattore religioso più di altri fattori (sociali, economici,
politici) se non più importanti almeno altrettanto importanti.
L'impressione
generale che viene fuori da una attenta analisi dei mass-media occidentali è la
volontà di far leva sullo steccato religioso che separa l’oriente dall’occidente
e di riproporre continuamente l’immagine stereotipata del musulmano fanatico,
guerrafondaio, retrogrado e violento.
Il colonialismo
dei paesi europei nei confronti dei paesi musulmani non iniziò con l’occupazione
militare di quei territori. Gli intellettuali musulmani vedono diverse fasi di
«penetrazione» dell’Occidente nei paesi musulmani: una prima fase di
penetrazione culturale, una seconda fase di imposizione economica, una terza
fase di ingerenza politica ed un ultima fase di occupazione militare. La libertà
e l’indipendenza, secondo gli odierni movimenti radicali islamici, deve
procedere nel percorso inverso ed ottenere l’indipendenza militare, politica,
economica e culturale: processo di liberazione - per questi movimenti - ancora
in atto!
L’idea di fondo
di attenersi alle fonti della fede e della tradizione dell’islam originario
permane fino ad oggi in tutto il pensiero intellettuale, teologico ed ideologico
dei movimenti culturali, religiosi e politici dell’islam contemporaneo. E’ del
1980 la frase di Târiq al-Bishri (scrittore-giurista egiziano, vice presidente
del Consiglio di Stato): «La lotta non è più tra il progresso e la reazione,
ma tra l’endogeno e l’esogeno, tra l’ereditato e l’importato».
Nei confronti
della cultura occidentale, comunque, possiamo parlare di tre possibili
atteggiamenti generali nell’islam che perdurano dal periodo della sua espansione
fino ai nostri giorni. Il primo atteggiamento è quello del rifiuto. Il secondo
atteggiamento è quello dell'accettazione totale. Il terzo atteggiamento è
quello di cercare una via mediana che accolga quella parte del pensiero
occidentale compatibile con l'islam e suscettibile di rielaborazione.
Già fin dal
periodo della sua espansione politico-militare del VII e VIII secolo l’islam ha
dovuto sempre prendere coscienza e difendere la sua ortodossia dalle «influenze
straniere» (bid’â) per mantenere l’autentica «tradizione» dell’islam (sunna).
La filosofia aristotelica, lo gnosticismo, lo zoroastrismo furono solo le
iniziali grandi influenze culturali che l’islam dovette fronteggiare con un
continuo richiamo alle fonti della fede: il Corano e la Sunna. La stessa nascita
delle scuole teologico-giuridiche dell’islam avevano lo scopo di definire e di
difendere l’ortodossia; come anche la chiusura della ricerca speculativa (ijtihâd)
nel sunnismo, avvenuta nel X secolo, aveva il chiaro scopo di non permettere che
influenze esterne prendessero piede nell’islam. E’ bene però tentare di chiarire
la mappa terminologica sui concetti inerenti l’islam contemporaneo e che oggi
sembra un gioco di codificazione e di decodificazione assi arduo. Dopo
l’indipendenza politica, dopo aver avviato il processo di indipendenza
economica, i movimenti islamici mirano a riappropriarsi dei territori ideologici
conquistati dall’Occidente. E’ proprio della rottura terminologica politica
dell’Occidente che si nutrono i movimenti islamici odierni, da cui i tanti
malintesi e la difficoltà degli occidentali a capire il fenomeno dell’islamismo.
Termini come fondamentalismo, integralismo, tradizionalismo, radicalismo sono
molto spesso usati indifferentemente. Ciò denota la difficoltà di comprendere la
realtà politica e religiosa dell’area musulmana sia nelle sue specificità che
nelle diversità. Prenderemo pertanto in esame il fenomeno dei movimenti islamici
odierni per poter cercare di chiarire la mappa terminologica che si usa, a
proposito o a sproposito, per riferirsi a tutto ciò che si riferisce all’islam.
Nel XIX secolo il
movimento intellettuale della nahda nasce soprattutto come apologia
dell’islam contrapposto da una parte all'occidente e dall’altra alle classi
religiose ed intellettuali musulmane ree di aver affossato l'islam nel taqlìd
(= imitazione servile), rivendicando la riappropriazione dell’ijtihàd (la
riflessione personale). Su questi due fronti si delinea l’intera elaborazione
del pensiero moderno musulmano, che tenta sia di superare il complesso di essere
stati superati culturalmente e tecnologicamente dall’occidente, sia di
rivalutare il passato aureo dell’islam (l'epoca del Profeta e dei primi quattro
califfi). Per esemplificazione, ma anche per comprendere le correnti attuali del
pensiero politico islamico, possiamo distinguere tre correnti principali di
questo movimento intellettuale di risveglio: il tradizionalismo, il
fondamentalismo ed il modernismo (la salafìiyya).
Le popolazioni
musulmane hanno respinto l’esperimento modernizzatore di Kemal Atatürk che, per
integrare la Turchia musulmana nell’Occidente moderno, allo scopo di acquisirne
la potenza economica e militare, arrivò ad un vera e propria capitolazione
culturale. Atatürk, infatti, voleva ridurre la religione a problema privato,
come il cristianesimo nell’Occidente secolarizzato, usando la costrizione più
brutale, ma le sue riforme non hanno ottenuto i risultati voluti. Molto più
consenso, invece, ha avuto nell’islam l’atteggiamento che, senza arrivare ad una
capitolazione culturale, riconosce la necessità di una certa modernizzazione,
ammettendo che solo a questo prezzo si può ridare vitalità alle società
musulmane. Tale accettazione almeno parziale della modernità caratterizza la
maggior parte dei movimenti di riforma e di «risveglio» che operano oggi nelle
società musulmane, anche quelle che respingono l’Occidente. Esiste infatti una
nozione ben precisa a voler dissociare le due nozioni di «Occidente» e di
«modernità», considerando peggiorativa la prima e prestigiosa la seconda. Lo
slogan a questo punto diventa: «i musulmani si devono modernizzare ma non
occidentalizzare». Su questa riflessione oggi c’è dibattito acceso
nell’islam, sia in quello che vive entro i confini storici delle società
musulmane sia in quello europeo.
Il ricorso al
patrimonio islamico in questi ultimi anni ha approfondito la tensione tra
«modernisti», «riformisti» e «radicali». Sempre più viene affermata la tesi
secondo cui l’islam deve di nuovo esser compreso come sistema universale che ha
le risposte a tutte le domande che una società di oggi può porre. Il
rinnovamento islamico attuale è cosciente che, se si limita alla sola sfera
del privato, l’islam corre il rischio di perdere la sua ispirazione originaria
come punto di riferimento fondamentale ai problemi sociali, politici ed
economici. In questo, per i riformisti musulmani, il cristianesimo rappresenta
il cattivo esempio di una religione che ha perduto la sua influenza nella
società compromettendo, se questo fosse possibile, o comunque rallentando, la
realizzazione del regno di Dio. Per questo è centrale, nei movimenti di
riformismo islamico, la riscoperta della propria identità. Il fatto che molti
governi musulmani, orientati verso l'occidentalizzazione, non hanno risolto i
problemi dei loro paesi, ha fatto sì che l’idea di una società giusta islamica
sia divenuta fonte di speranza di un avvenire migliore. Questi concetti appena
esposti sono la matrice di molti pensatori musulmani contemporanei, ma sono
anche gli slogan del radicalismo musulmano.
E’ qui che
bisogna cominciare a distinguere le varie correnti di pensiero e tentare di
capire la terminologia usata in ambito musulmano e in ambito europeo.
Oggi si tende,
sia nel linguaggio comune sia in quello giornalistico ed accademico, ad usare
indifferentemente i termini «islam» e «islamismo», termini che a
volte sono scritti con lettera iniziale maiuscola a volte minuscola. L’uso del
maiuscolo deriva dalla lingua inglese, ma in italiano islam o islamismo lo si
scrive con lettera minuscola così come con lettera minuscola si scrive
«cristianesimo», «ebraismo», ecc.. Ma più attenzione bisogna porre sull’uso del
termine «islamismo». Forse fino a 10 o a 5 anni fa questo interscambio
dei due termini poteva essere consentito, ma oggi essi assumono significati
diversi, perché diverso è il significato del termine «musulmano» e «islamico».
Nell’uso corrente il termine «islamico» è legato alla cultura derivata
dalla civiltà sorta con l’islam e non ha un’accezione religiosa, e quest’uso
rimarrà ancora nel nostro linguaggio.
Bisogna però
prendere atto che tutti gli islamici sono musulmani, ma non tutti i musulmani
sono islamici. Non si deve confondere un fenomeno politico-religioso con una
fede ed una cultura millenaria sorta con la rivelazione coranica e sviluppatasi
soprattutto al di fuori dei territori tradizionalmente arabi.
L’islam è antico,
ma l’islamismo - nell’accezione di movimento politico - è un fenomeno recente,
sorto agli inizi degli anni settanta ed inteso, dagli stessi islamici, come un
movimento di rinnovamento della comprensione dell’islam. E’ pertanto necessario
oggi distinguere tra «islâmiyyûn» (islamici) e «muslimûn» (i
credenti musulmani). Non è corretto identificare una parte della umma musulmana
con la totalità.
Nella lingua
italiana diversi studiosi hanno già cercato di distinguere terminologicamente
l’islam dal fenomeno politico definendo questo «islam radicale», «islamismo
radicale» o «islam politico». Per «islamismo» si dovrebbe intendere
oggi proprio quella parte della umma che intende svolgere al suo interno una
funzione di guida morale e politica.
L’islamismo
prosegue le rivendicazioni nazionalistiche delle aree arabe, come ulteriore
stadio del lungo processo di autodeterminazione. Da sempre nell’islam religione
e politica si sono dati mutuo sostegno. E’ necessario pertanto sciogliere
l’intreccio terminologico che appiattisce, in una sorta di immaginario
collettivo dell’occidente, una realtà complessa come quella dei movimenti
islamici odierni.
Ci sono quattro
punti per comprendere l’islamismo radicale nel suo rapporto con l’occidente o,
meglio, con la sua ricerca di una propria via alla modernità contrapposta a
quella occidentale:
1) La modernità si
è presentata al mondo arabo-musulmano con la pretesa di universalità, mentre non
si trattava altro che dell’assunzione a criteri universali di qualcosa che
apparteneva alla sola cultura occidentale.
2) La modernità ha
provocato nelle società musulmane la coscienza di una sfasatura rispetto ad essa
non solo cronologica, ma anche ontologica.
3) La modernità è
sempre andata di pari passo con l’occidentalizzazione.
4) I musulmani nel
loro rapporto con la modernità hanno perduto alcuni dei propri riferimenti
culturali, costretti a delle lacerazioni e obbligati a rivedere concezioni
fondamentali del loro sapere e senza arrivare finora a nuove sintesi culturali,
con l’ulteriore conseguenza che il mondo arabo-musulmano avverte una doppia
alienazione sia rispetto alla modernità, perché non è moderno, sia rispetto alla
tradizione, perché non è tradizionale.
4.1 il tradizionalismo
Sia in terra
musulmana che altrove, ci sono sempre state correnti e ideologie politiche
legate alla tradizione. Ma se per tradizione s’intende conservatorismo, tale
categoria allora non può essere riferita ai movimenti islamici odierni. Il
tradizionalismo, inteso come emulazione di un passato ideale, che si vuole
riproporre immutato, non fa progetti politici. Esso è più interessato alla
moralizzazione della società che alla giustizia sociale, che invece è un tema
centrale dei movimenti islamici. Il tradizionalismo, che nell’islam è
conservatorismo, è la tendenza a conservare l’ordine esistente e ad opporsi ai
cambiamenti. Tutto ciò che è modernità, che è innovazione viene rigettato dal
tradizionalismo che rivendica un ritorno al passato. Ma la domanda che sorge
spontanea è «a quale passato?»: quello precedente il colonialismo, quello
precedente l’influsso culturale dell’Europa cristiana, o della filosofia greca o
dello gnosticismo iranico? I fondamentalisti americani e delle aree evangelicali,
rientrerebbero in questa categoria. Nel linguaggio islamico essi sarebbero dei
conservatori e non dei fondamentalisti.
4.2. il fondamentalismo
Il
fondamentalismo è una corrente radicale che cerca di liberare le antiche e
genuine tradizioni delle prime generazioni di musulmani da tutte le innovazioni
successive, per tornare al Corano e alla Sunna ed al primo consenso (la ijma’)
nella ricerca del «puro islam».
L’elemento
principale del fondamentalismo cristiano è il rifiuto della critica biblica. Se
trasportiamo questo in ambito musulmano sostituendo la critica biblica con lo
studio critico del Corano, allora tutto l’islam è fondamentalista.
Sarebbe come se
trasportassimo nel cattolicesimo lo studio scientifico della transustanziazione.
Il corpo eucaristico di Cristo per i cattolici, non lo si può studiare al
microscopio, lo stesso vale per il Corano nell’islam. Il fondamentalismo, in
ambito musulmano, non è la critica alla teologia, ma una corrente teologica ben
precisa. Spesso il fondamentalismo viene considerato sinonimo di
conservatorismo: questo non è corretto. Diversamente dal tradizionalismo, il
fondamentalismo non è conservatore, ma è sostenitore del ritorno alle fonti
della fede musulmana: non un ritorno al passato, ma alla fede... a Dio! Il
fondamentalismo rifiuta l’ordine esistente in quanto non è conforme ai principi
puri e originari dell’islam. Per il fondamentalismo allora il nemico non è la
modernità, ma la tradizione.
In questa
prospettiva i movimenti islamici si ritrovano nella tendenza fondamentalista di
riformismo, di ritorno alla purezza originaria che poneva a diretto contatto il
Corano e la realtà del momento. Il loro nemico sono quelle tradizioni rivestite
di una certa sacralità e intoccabilità, quelle credenze e sistemi dottrinali
ereditate come retaggio storico, ma che non fanno parte della Rivelazione. Esso
vorrebbe il cambiamento in quanto modellamento della società secondo l’esempio
della Sunna del Profeta, quando non c’erano né divisioni all’interno della umma
musulmana né innovazioni provenienti dall’esterno (bid’a). Ciò spiega
perché, diversamente dai fondamentalisti cristiani, i movimenti fondamentalisti
nell’islam sono spesso militanti e legati a movimenti politici. Da qui nascono
due tendenze odierne del fondamentalismo: una tendenza «attiva» che
abbraccia la militanza e la progettualità politica; una tendenza «passiva»
che invece si limita al richiamo morale verso la pura fede dell’islam. Mentre i
movimenti islamici rivendicano per sé la tendenza «attiva», attribuiscono agli
‘ulema, alla classe religiosa istituzionale, la tendenza «passiva».
4.3. il modernismo (la salafiyya)
Quella che
chiamiamo la corrente modernista, vede invece nel solo Corano la fonte della sua
ricerca, non considerando la Sunna e tentandone una lettura moderna; essa
ricerca «il puro Corano». Essa opera però all’interno di esso una cesura tra ciò
che è il contesto iniziale della rivelazione da ciò che è il suo «spirito
essenziale» valido universalmente; essa ricerca «la pura rivelazione».
Dall’espressione
«salaf as-salihin» (= i pii antichi) fu designato qual movimento
intellettuale sorto alla fine del XIX secolo in Egitto e da dove ha esercitato
una profonda influenza in tutti i paesi di cultura musulmana. La salafiyya
cercava di mediare l’islam con le esigenze intellettuali dell’umanesimo laico
sostenendo che là dove l’islam si trovava in conflitto con le esigenze moderne,
la legge islamica poteva essere modificata. Il suo massimo teorico, il teologo
Muhammad ‘Abduh, riteneva che sarebbero dovute essere abolite le quattro scuole
giuridiche islamiche, lasciando il posto ad un diritto islamico unificato e
rifondato per essere più rispondente alle esigenze moderne.
Oggi tra
movimenti islamici vi è una percezione ed una opinione diversificata sulla
salafiyya. Alcuni tra i leader più accreditati rimproverano alla
salafiyya di aver riconosciuto la «superiorità» culturale rispetto all’islam
a cui era arrivato l’occidente e di avere, di conseguenza, portato il mondo
islamico verso di esso.
L’immagine che i
mass media occidentale veicolano della corrente modernista musulmana è quella di
individui e di correnti democratiche come le intende l’occidente; ma in realtà
non è così o meglio non è così percepita da molti intellettuali musulmani che
avvertono una falsa modernizzazione fatta di manipolazioni, arrangiamenti e
bricolage ad imitazione dell’occidente. Attualmente, con la crescita
dell’islamismo radicale, i cosiddetti «modernisti» tentano di accaparrarsi
qualche nozione di islamismo per proteggersi dall’anatema di essere additati
come kefir (= infedeli) e per evitare che si possa dire di loro che non
praticano la religione, che non sono dei buoni musulmani ed essere quindi votati
alla morte. Ciò fa sì che oggi, stranamente, la corrente modernista porta aventi
tesi tradizionaliste.
4.4. le tre adozioni
Se è perdonabile
schematizzare il confronto delle società musulmane con l’occidente, possiamo
delineare tre momenti in cui questo confronto ha assunto caratteri specifici, in
cui la società musulmana ha adottato ciò che riteneva compatibile con la sua
cultura nel cammino verso la modernità da un lato e la difesa della propria
identità culturale e religiosa dall’altro.
4.4.1. l’adozione militare
In una prima fase
di «adozione parziale» dell’Occidente, fin dall’inizio dei movimenti di riforma,
i gran muftì, i gruppi sufi, gli strati tradizionalisti della società musulmana
e i gruppi radicali erano concordi con una riforma che adottasse tutte le
riforme militari che potessero contrastare la supremazia occidentale. La classe
militare e dell’amministrazione dello Stato è quella portante di questa fase.
4.4.2. l’adozione tecnologica
‘Abu-l-‘Ala
Al-Maududi (1903-1979), considerato il più coerente pensatore del
fondamentalismo islamico, fu il precursore ed il promotore dell’adozione
tecnologica nella società islamica. Siamo in una seconda fase in cui si
riscontrano gli aspetti positivi delle conquiste tecnologiche dell’Occidente e
si adottano. Mauduti, uno dei più grandi ideologi del radicalismo islamico
contemporaneo, parlava dell’Occidente con ammirazione stupefatta ed esortava
l’islam a ricercare il segreto della sua incredibile forza, ma ammonendo - allo
stesso tempo - di compiere una cernita: prendere le sue virtù, ma non i suoi
vizi, né il suo sistema culturale, né, soprattutto, il suo sistema democratico.
Per il pensiero di Maududi infatti la democrazia, in quanto sistema umano, è
opposto alla Hakimiyya, il governo di Dio. Gli ingegneri, i medici, i
fisici, le classi che adoperano i ritrovati più moderni della tecnologia sono i
sostenitori e gli affascinati di questa fase.
4.4.3. l’adozione della democrazia
Attualmente
assistiamo al sorgere di una ulteriore adozione parziale dell’Occidente. Diversi
tra i più seguiti pensatori islamici contemporanei si sono avviati in una fase
di superamento del pensiero maududita della hakimiyya ed affermano che bisogna
adottare la cultura dell’Occidente, la sua ideologia attraverso il volano della
democrazia. I più noti di questo pensiero sono proprio i fratelli musulmani che
hanno conquistato alla loro militanza medici, farmacisti e avvocati.
Diversamente che da Maududi, oggi si insiste sulla compatibilità tra il processo
democratico e la democrazia. I leader radicali più disposti a questa apertura
democratica sono proprio - strano a dirsi - Hassan Turabi e Rashid Gannushi, la
cui opera è tutta improntata alle libertà. Il primo, sudanese, è sostenitore, a
volte in modo palese a volte tacitamente, dell’attuale regime di repressione di
Omar al-Bashir. Il secondo è l’ideologo della nahda tunisina, islamista radicale
e bandito dall’attuale governo tunisino. Ma in questi due pensatori forse
assistiamo ad un concetto di democrazia che si innesta su strutture mentali
antidemocratiche, come quando Gannushi parla sì di libertà democratiche, ma
dicendo che queste devono essere imposte dallo Stato.
Il progetto
politico e culturale di una società moderna, ma non occidentale, che è vincente
nella cultura e nella politica dei paesi musulmani, è un processo in atto e non
è un processo di per sé negativo. Sia noi europei che la stragrande maggioranza
dei musulmani siamo disorientati e preoccupati per i risvolti cruenti che la
lotta di alcuni gruppi radicali islamici hanno intrapreso. Anche se religione e
società non sono facilmente scindibili nella fede e nella cultura islamiche,
dobbiamo saper distinguere tra il dibattito teologico-culturale della umma
musulmana e le rivendicazioni politico-sociali delle società musulmane.
Al di là degli
avvenimenti e delle congiunture, è chiaro che nelle società musulmane la
dinamica di affermazione collettiva e pubblica dell’ideologia islamica non si
arresterà finché non saranno risolte le motivazioni di fondo che l’hanno
provocata e non è facile prevedere gli orientamenti che prevarranno negli anni a
venire. E’ ovvio che anche per i musulmani europei quello che avviene nelle
società musulmane è un punto di vista dei simboli, delle idee e delle
organizzazioni. Il problema sarà quello di vedere a quali modelli l’islam
europeo farà riferimento e quale sarà il suo grado di autonomia e la capacità di
produrre i propri significati.
Il timore
vivamente sentito tra alcune élite dell’immigrazione musulmana, che il loro
patrimonio religioso e culturale si decomponesse e dissolvesse, ha favorito fino
ad oggi irrigidimenti o fughe in avanti, nel tentativo di affermare la propria
identità collettiva.
Sarà inevitabile
che l’islam europeo, nella fedeltà a Dio ed alla sua rivelazione, dovrà
formulare una risposta originale, inedita per i musulmani, come minoranza in una
società pluralista e secolarizzata.
5. Conclusioni:
l’islam e l’Europa oggi
Una tra le tante
riflessioni sorte sulla Guerra del Golfo è che questa, oltre ad accentuare gli
stereotipi dell’immaginario collettivo, ha soprattutto rafforzato l’immagine
della bipolarità «islam-Occidente». Questa bipolarità sembra affermarsi in
sostituzione alla bipolarità ormai crollata «Est-Ovest». L’anima divisa e
ritrovata dell’Europa, mentre faticosamente cercava di rimuovere e recuperare
molte delle cose che prima dall’una o dall’altra parte si ritenevano «estranee»,
cercando di contrapporre qualcosa che fosse altro da sé, «estranea», al fine
forse di rafforzare o di ritrovare una sua ipotetica identità unitaria europea,
ha preso atto con la guerra nella ex-Jugoslavia come questo processo non sia
ancora avviato. Caduto il muro di pietra che spaccava in due Berlino forse se ne
sta costruendo idealmente un altro di acqua che vorrebbe spaccare in due il
Mediterraneo in senso longitudinale, con la differenza però che da questa parte
del muro vivono 7 milioni di musulmani. Questo sciagurato muro, infatti, chi lo
vorrà ergere dovrà farlo tra i quartieri, nelle fabbriche, nei condomini, nella
scuola cementandolo con arroganza, pregiudizi, paure, odio.
Questo muro,
però, non è costruito soltanto dalla parte occidentale, ma da entrambe le parti.
L’Occidente è costantemente caricaturato e denunciato, in ambiente musulmano,
come portatore di decadenza e di tutte le perversioni. I valori e la realtà
vissuta dal cristianesimo e dalle chiese sono molto spesso denaturate dai
pregiudizi ereditati dal passato e rafforzati da una loro lettura superficiale.
Allo stesso modo il rinnovamento islamico contemporaneo è sbrigativamente
marchiato d’integralismo o di fondamentalismo senza tener conto dell’aspirazione
ad una più grande giustizia sociale ed ad una più larga partecipazione alla vita
nazionale. Gli estremisti che ricorrono al terrorismo in nome dell’islam sono
confusi, in Occidente, con correnti politiche che protestano contro i regimi
sottomessi alle politiche occidentali, o con movimenti di risveglio religioso in
una società confrontata con la secolarizzazione.
Se da un lato
non si deve essere né superficiali né ingenui nell’analizzare l’islam e la
società musulmana, ponendosi in un atteggiamento di rispetto cieco e acritico,
dall'altro lato (considerando un arco storico più ampio di quello contemporaneo)
non dobbiamo dimenticare neppure che l’occidente cristiano non è da molto tempo
né ancora del tutto liberato da quegli stessi «orrori» che si contestano alle
società musulmane (l'emancipazione della donna, il fanatismo, la violenza,
ecc.).
Ci si dovrà
liberare dagli stereotipi e dalla superficialità degli uni verso gli altri ed
accorgersi che la differenza tra conservatori e progressisti, tra oppressori e
oppressi, tra adepti della violenza e partigiani del processo di liberazione del
proprio popolo, non corrisponde alla differenza tra mondo occidentale e mondo
musulmano, ma sono fratture all’interno delle società e dei processi di pensiero
che si dibattono e combattono nelle rispettive società. Noi conosciamo una
teologia della liberazione in America Latina, in ambito cristiano, che ha dei
punti di convergenza col pensiero dell’iraniano Ali Shariati o con l’egiziano
Sayyd Qutb. Allo stesso modo il rigido conservatorismo delle autorità saudite e
il loro diniego dei diritti dell’uomo non è molto diverso dalla destra
occidentale, specialmente americana con la sua componente di cristiani
fondamentalisti. I discorsi d’apertura al dialogo, da una parte e dall’altra,
non sono accolti con favore dalla base delle comunità. Né gli scritti di
apertura di Kamel Hussain, in Egitto, o gli appelli al dialogo del tunisino
Muhammad Talbi hanno prodotto una inversione di tendenza. Non solo le prediche
degli imam sono ancora aggressive nei confronti dei cristiani, ma gli stessi
testi scolastici degli studenti musulmani sono parziali e faziosi quando
trattano il cristianesimo e ripropongono i pregiudizi e gli stereotipi
dell’apologia musulmana. Esattamente ciò che si ritrova nei testi scolastici
dell’occidente quando questi trattano l’islam. Se, sul versante cristiano, gli
artefici del dialogo islamo-cristiano, incontrano un sempre maggiore sostegno,
sia nella chiesa cattolica che in quelle protestanti, è anche vero che essi
hanno chi li contrasta sia nel seno della chiesa che nella società dove questo
discorso deve fare i conti con la diffusa paura dell’islam. La presenza
musulmana in Europa fa sorgere molte domande e molte ansie negli europei. Come
si svilupperà l’islam in Europa? Sarà aggressivo, prepotente, invadente, vorrà
far scomparire il cristianesimo come ha fatto nel Nord Africa e come sta
accadendo in Medio Oriente? Perché i musulmani possono costruire le loro moschee
in Europa ed i cristiani in Turchia non possono né costruire né restaurare le
loro chiese e in diversi paesi della Penisola Arabica non è loro consentito non
solo di avere chiese, ma neppure di tenere il loro culto? Come si potrà
conciliare la legge islamica con gli ordinamenti giuridici europei e come si
potranno conciliare la secolarizzazione e laicità tipiche della cultura europea
con l’islam?
Il principale
nodo su cui il pensiero musulmano contemporaneo è chiamato a riflettere è
quello del rapporto tra lo stato e la religione, quindi il problema della
religione di stato, della laicità dello stato, della secolarizzazione. Da questo
consegue il serio problema dell’applicazione del diritto islamico negli
ordinamenti giuridici europei: il rapporto tra la sciarìa e i diritti dell'uomo,
e quindi il problema del diritto di famiglia, dell’emancipazione della donna e
dell’uguaglianza legale tra i due sessi.
Non esiste altra
via da percorrere che quella dell'incontro e del dialogo, lo vogliamo o no! Non
esiste altra via che la costruzione di una società in cui la vita sia degna per
tutti.
I cristiani hanno
ampiamente contribuito alla costruzione della società industrializzata europea
nella quale oggi vivono con dei musulmani. Essi conoscono le strutture ed i
ritmi di questa società e ne ravvisano alcuni aspetti positivi molto importanti
e dai quali ritengono non bisogna tornare indietro. Sono di solito favorevoli,
per esempio, alla separazione tra stato e chiesa, sostengono la positività del
pluralismo religioso e culturale in uno stato laico e secolarizzato, difendono
la libertà dell'individuo e lottano per la giustizia. Ci sono musulmani invece
che intendono mantenere anche in Europa alcuni principi “forti” della loro
società: cosa fare?
Il dialogo
costituisce un aspetto essenziale del servizio che i cristiani possono offrire
alla società, dove è in gioco la loro credibilità e la loro testimonianza. Il
dialogo e l'incontro sono possibili a diversi livelli: sul piano dell’esperienza
quotidiana per le questioni sociali, comunitarie, familiari, etiche, ecologiche;
sul piano dell’incontro delle culture per il rispetto e la migliore conoscenza
reciproca; sul piano politico per questioni che riguardano la sicurezza
economica, culturale e giuridica.
Il futuro pone
domande non facili sia agli europei sia ai musulmani, entrambi in fase di
riflessione sulla costruzione della società moderna. Gli europei sono chiamati a
ripensare il proprio progetto collettivo a partire dalla presenza musulmana: si
tratta di chiarire innanzitutto se le democrazie dell’Europa occidentale
possiedono ancora i valori necessari per integrare quella presenza in una
pluralità armoniosa di appartenenze e mantengono la forza indispensabile per
progettare le tappe e le istituzioni che dovranno scandire questo processo.
Nel percorso di
integrazione ai musulmani europei spetta un compito non facile: riuscire a
pensarsi europei senza sacrificare la propria identità musulmana. Non è una
missione impossibile, l’esempio dei cristiani in Medio Oriente (pienamente
cristiani e allo stesso tempo pienamente arabi per lingua, costumi, abitudini di
vita) ne è la prova. Ma questo compito esige la capacità di progettare e
formulare le proprie richieste in termini che possano essere compresi ed
accettati dalla comunità di accoglienza.
Vi sono dei
fenomeni però che ostacolano questo progetto: l’insicurezza personale, la paura,
i pregiudizi e l’incapacità all’apertura; cose dalle quali si può cercare di
guarire. Ma vi sono ostacoli che provengono dalla differenza delle culture e
delle tradizioni e si prenderebbe un grosso abbaglio se non lo si volesse
ammettere. Vi sono ostacoli che devono essere superati e conflitti di cui si
deve avere coscienza senza né rimuoverli né giustificarli. Un rapporto
amichevole arricchisce sicuramente entrambi, ma non è qualcosa che avviene
dall’oggi al domani: è un processo che richiede tempo, pazienza, costanza e
fede.
(Testo
redatto dall’Autore)
Sempre al singolare senza mai premettere il nome degli evangelisti.
Ende W., Steinbach U., L’islam Oggi, EDB, Bologna 1993, p 99.
Citato da A. Bausani, op. cit. p.115.
Ende
W., Steinbach U., op. cit. p. 775-777.
Dall’articolo di El Bisri Dala, “Islamismo e modernità”, in Franca Pizzini
(a cura di ), L’altro: immagine e realtà. Incontro con la sociologia dei
paesi arabi, Franco Angeli Ed., Milano 1996, p. 66.
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